Quando si trasforma il lavoro in pura merce si è di fronte a un attacco alla libertà nella vita, prima ancora che nel lavoro. L'intervista di left a Maurizio Landini.

Freddo. Un paio d’anni fa Maurizio Landini scelse questa parola e con la voce a tratti rotta dalla commozione raccontò in tv del freddo provato a sedici anni, quando per la prima volta entrò in una fabbrica. Qualche giorno fa un altro Maurizio (questa volta il comico Crozza) ironizzava sugli occhi freddi e vuoti di Sergio Marchionne, ad Fiat. Il freddo della fabbrica e gli occhi freddi dei Marchionne d’Italia sono al centro della vita del segretario della Fiom più popolare che si ricordi, seguitissimo per le sue battaglie sindacali ma tanto amato anche dai media per quelle sue reazioni indignate ogni volta che a finire sotto attacco sono i diritti e la dignità dei lavoratori.

Le va se ripartiamo dall’articolo 18? Renzi afferma che ormai «è un totem ideologico di una vecchia sinistra che difende i privilegi di pochi». Cosa risponde?

Che un lavoro senza diritti non è un lavoro, è schiavismo. E che lo Statuto dei lavoratori va esteso a tutti e non tolto a quelli che ce l’hanno. Che l’art. 18 è una tutela individuale per far sì che una persona sia un libero cittadino anche nei luoghi di lavoro e che molto semplicemente impedisce che si abbia il diritto di licenziare quando si vuole. Del resto, la teoria che nel resto dell’Europa non ci sia l’art. 18, e che per questo bisognerebbe toglierlo anche da noi, cozza contro il fatto che in Europa ci sono 25 milioni di disoccupati. Tra l’altro non mi pare che lì dove non c’è l’art. 18 le cose vadano molto meglio sul piano del lavoro e dell’occupazione. È un elemento di civiltà che non può essere messo in discussione. Avere dei diritti serve a riequilibrare il rapporto tra lavoratore e imprenditore e soprattutto a permettere alle persone di realizzarsi nel lavoro che fanno, senza avere paura di ricatti o discriminazioni. Questa storia della sua abrogazione è un falso problema ma soprattutto è un passo indietro inaccettabile per tutto il Paese.

Lei inizialmente non era tra i gufi. Ha tentato il dialogo con questo governo. Ora è tutto saltato, quale è stato il punto di rottura?

Io sono abituato a giudicare le persone e i governi per quello che dicono e quello che fanno. Il presidente del Consiglio aveva detto di voler cambiare il Paese, e io gli ho proposto di farlo assieme alle lavoratrici e ai lavoratori. Quando ha dato gli 80 euro sono stato d’accordo, quando ha tassato le rendite finanziarie anche, nel momento in cui invece ha scelto di accettare il programma di Confindustria facendolo di fatto diventare il proprio, mettendo in discussione non solo l’art. 18, ma tutto lo Statuto dei lavoratori, non sono stato più d’accordo.

Perché? Non le sembra un possibile elemento di cambiamento anche questo?

L’idea che sia sufficiente ridurre la tassazione sulle imprese per risolvere i problemi di questo Paese, accettare di mettere in discussione i contratti nazionali di lavoro, ritenere che il modello Fiat possa diventare un modello generale, implica scelte economiche e finanziarie che non fanno altro che proseguire sulla linea già indicata dai governi Monti e Letta. Così non si cambia il Paese: così si torna indietro e soprattutto non si mettono in discussione quei vincoli Ue che stanno mettendo in ginocchio l’Italia e l’Europa.

Quindi ora anche lei è tra i gufi?

Il problema non è essere contro Renzi. Il problema, per quello che riguarda il sindacato, è essere autonomi e indipendenti e avere un proprio progetto, delle proprie proposte che, a differenza di quelle del governo, non vogliono dividere ma unire tutte le persone che per vivere devono lavorare. Dobbiamo costruire un’alleanza vasta di persone che sia in grado di cambiare queste scelte e questa politica e anche di mettere in discussione la politica in Europa.

Una vasta alleanza di persone “di sinistra” o anche questa definizione non ha più senso? Il mondo per Renzi si divide in vecchi e nuovi, come salvarsi da questa dialettica asfittica?

Ho la sensazione che in questi anni sul piano culturale e dei valori abbia prevalso un pensiero unico. Quello del libero mercato, del cosiddetto liberismo in Europa e in Italia. Sulle politiche industriali e sulla centralità del lavoro anche i governi di centrosinistra che hanno preceduto Renzi non hanno fatto nulla di molto diverso dai governi di centrodestra. C’è stata invece la costruzione di una legislazione che di fatto ha favorito la riorganizzazione delle imprese a danno dei diritti e degli investimenti. Soprattutto non si è mai affrontato il problema della redistribuzione della ricchezza a danno del lavoro. Siamo il Paese che ha l’evasione fiscale e la corruzione più alte e in questi anni il mondo che rimane maggioritario, quello cioè di chi per vivere svolge un lavoro salariato, è rimasto senza rappresentanza.

La risposta deve essere politica?

Innanzitutto oggi il problema è costruire un progetto e una cultura che siano alternativi a questo pensiero e allo stesso tempo produrre dei risultati molto concreti. Ogni giorno siamo di fronte ad aziende che chiudono, licenziano, delocalizzano. Siamo di fronte a un lavoro ridotto a merce, precario. Non si vive più lavorando, anzi si è poveri lavorando. Io non so se la politica attualmente sia in grado di svolgere questo compito. Per quanto mi riguarda penso che le organizzazioni sindacali, in questo caso la Fiom e la Cgil, siano oggi l’unico soggetto che può offrire un terreno di riunificazione del mondo del lavoro. Anche per la costruzione di un progetto alternativo a quello portato avanti da questo governo e da questa Europa.

Anche voi però siete spacciati per “vecchi arnesi inutili” preposti alla difesa di pochi privilegiati. E spesso accade che vostri segretari vengano fischiati in piazza dagli stessi operai che da anni non votano i partiti della sinistra.

Mi pare evidente che in questo Paese ci sia un problema di rappresentanza. Metà degli italiani non va a votare, metà dei lavoratori non è iscritto a un sindacato, così come per le Associazioni d’impresa. Noi, Fiom e Cgil, non abbiamo difficoltà a riconoscerlo. A differenza di altri siamo in rapporto diretto con le persone e siamo pronti a giocarcela, per questo abbiamo organizzato scioperi, manifestazioni come quella del 25 ottobre e molto altro. La critica più forte che ci fanno, in questo caso alla Cgil, è proprio quella di non aver fatto fino in fondo la sua parte, di non essersi opposta ai tagli alle pensioni e di non essere stata sufficientemente autonoma dai partiti, dai governi, dal quadro politico. Ecco, dal momento che le decisioni della Cgil in questi mesi vanno in direzione opposta e offrono un terreno di mobilitazione, sono convinto che questo è il modo per recuperare. In questi giorni le nostre piazze si sono riempite oltre ogni aspettativa e penso si arriverà allo sciopero generale e oltre. Bisogna essere in grado di dare una risposta vera e, come Fiom e Cgil, dobbiamo essere pronti a cambiare, a rinnovarci, a essere più democratici per recuperare il terreno perduto in questi anni.

Le va di ricordare uno dei meriti belli del sindacato? Per esempio, il dato che lì dove il sindacato è più forte c’è meno precariato?

In Italia la precarietà esiste perché sono state fatte delle leggi che hanno creato forme di lavoro incredibili ed è chiaro che tutto questo ha indebolito anche il sindacato e la sua possibilità di tutelare e garantire tutti. Le faccio l’esempio del settore metalmeccanico (è quello che conosco meglio!), quando Federmeccanica (associazione delle imprese) afferma che ancora oggi oltre il 90% degli impiegati nel settore ha un contratto a tempo indeterminato, vuol dire che il sindacato ha fatto migliaia di accordi per far sì che il lavoro precario fosse limitato e che molti contratti venissero trasformati in tempi indeterminati. Abbiamo fatto accordi sugli orari e sugli usi degli impianti. Ed è evidente che se nel settore metalmeccanico c’è meno precarietà è grazie al nostro lavoro. Questo ci è riconosciuto, in questi mesi nelle fabbriche si sta votando per eleggere le Rsu e siamo di fronte al fatto che, contrariamente al voto delle Politiche, l’80-90% dei dipendenti partecipa al voto e la Fiom si conferma il primo sindacato nel settore metalmeccanico. Lo ripeto, se i giovani i precari percepiscono che questa volta la Cgil e la Fiom fanno sul serio, ci sono tutti i presupposti per impedire che il governo faccia gli errori che annuncia.

Le chiedono di continuo di entrare in politica, di essere il nuovo leader della sinistra. Cos’è, secondo lei, che le riconoscono? Una coerenza personale? Una onestà?

Io credo che sia frutto del lavoro fatto dalla Fiom in questi anni. Non di Landini, della Fiom, delle delegate e dei delegati, di tutti gli iscritti che nelle fabbriche ci hanno messo la faccia. La forza della Fiom sono le migliaia e migliaia di delegati, di donne e di uomini, di giovani che ogni giorno coerentemente difendono i propri diritti. Io, essendo in questa fase segretario generale, interpreto il lavoro che la Fiom ha fatto. Noi siamo stati coerenti, abbiamo cercato di fare ciò che dicevamo, non abbiamo mai avuto paura anche quando eravamo controcorrente. E, come nel caso della Fiat, si è visto nel tempo che avevamo ragione. Penso che questo sia l’elemento che ci viene riconosciuto, una autonomia e una indipendenza di giudizio. Detto questo mi lasci aggiungere che c’è anche un tentativo, fatto ogni volta che cresce il consenso intorno alle mobilitazioni della Fiom, di delegittimazione. Si dice che il suo segretario vuole entrare in politica e lo si fa per delegittimare quello che stiamo facendo tutti. Sono sei anni che portano avanti questa tiritera.

Le gambe della sinistra per Bobbio erano l’uguaglianza e la libertà. Oggi siamo in piazza per il lavoro: quando diventa libertà?

Il lavoro è libertà quando la persona si realizza in quello che fa. Il vero asse della lotta alla precarietà è proprio la libertà nel lavoro. L’aspirazione delle persone che fanno un lavoro non è solo di prendere i soldi ma di realizzarsi. Fare cose che piacciono, usare la propria intelligenza, essere riconosciuti come persone e attraverso questo realizzare la propria identità e la propria dignità. Per questa ragione la lotta contro la precarietà è una lotta per la libertà e per la democrazia. Perché quando si trasforma il lavoro in pura merce e si riducono i diritti è chiaro che si è di fronte a un attacco alla democrazia e ad una riduzione della libertà prima ancora che nel lavoro, nella vita.