Dopo anni di oblio il termine “indipendente” potrebbe tornare ad avere un senso. Parola del frontman degli Afterhours.

Incontriamo Manuel Agnelli a Firenze prima della finale del Rock contest organizzato dell’emittente Controradio (Popolare network). Il musicista degli Afterhours è presidente di giuria della rassegna nazionale giunta alla sua ventiseiesima edizione. E all’interno della quale sono passati tanti nomi della scena indipendente italiana. È l’occasione per parlare con lui di vari aspetti legati alla musica del nostro Paese, dalla formazione alla politica culturale.

Manuel Agnelli, pochi giorni prima del Rock Contest lei era a Firenze per il Campus della musica, in una situazione didattica rivolta ad aspiranti musicisti. Come vede queste iniziative per sostenere i più giovani?

Portare la mia esperienza a ragazzi e musicisti che vogliono seguire questa strada spero sia utile a far sì che non compiano gli stessi errori che abbiamo fatto noi. Trovo giusto che chi ha avuto un minimo di visibilità si metta a disposizione degli altri anche per accorciare i tempi di maturazione dei progetti musicali a livello professionale e artistico. Conosco un sacco di gente di talento che non è riuscita a valorizzarlo perché mancavano le competenze. Firenze in questo periodo mi sembra vivace: ci sono delle eccellenze che organizzano queste manifestazioni e lo fanno con grandissima qualità.

Qui è nato il primo Meeting delle etichette indipendenti (Mei). Ha ancora un significato oggi usare il termine “indipendente”?

Dopo anni di oblio il termine indipendente potrebbe tornare ad avere un senso, perché si sono chiusi o ridimensionati un sacco di mezzi di informazione di un certo circuito. Parlare di indipendenza prima degli anni 80 voleva dire però partecipare a un sistema sociale che aveva vita propria con l’autoproduzione nel vero senso della parola. Costruisci un prodotto per poi venderlo all’interno di un sistema capitalista in un modo o nell’altro. Parlare di alternativa al sistema e ricrearla in piccolo è stata sempre la faccia un po’ ipocrita di questo mondo. Però negli anni 80 il fenomeno viveva di vita propria, poi dagli anni 90 ha iniziato a collassare. Negli ultimi anni si era ridotto a una serie di hobbysti che faceva i dischi per il piacere di farli. Non c’è nulla di male in questo, però la parte etica e sociale era crollata.

intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014