L’Italia sarà davvero l’ultima nazione europea a riconoscere lo Stato di Palestina? Superati anche dal Portogallo. Oltre che da Gran Bretagna, Francia, Spagna, Danimarca, Belgio, Irlanda, Svezia. Inutile trincerarsi dietro l’intasamento di leggi da discutere in Aula. O far riferimento a pratiche, vere o presunte, ostruzionistiche che allungano a dismisura i tempi dei dibattiti. Scuse, per l’appunto.

Nel migliore dei casi saremmo in coda alla lista. Superati anche dal Portogallo. Oltre che da Gran Bretagna, Francia, Spagna, Danimarca, Belgio, Irlanda, Svezia… È inutile trincerarsi dietro l’intasamento di leggi da discutere in Aula. O far riferimento a pratiche, vere o presunte, ostruzionistiche che allungano a dismisura i tempi dei dibattiti. Scuse, per l’appunto.

Perché dietro la non volontà delle istituzioni rappresentative del Belpaese di pronunciarsi sul riconoscimento dello Stato palestinese, c’è poco di tecnica parlamentare e molto di scelta politica. Una scelta di parte. La parte israeliana. O per meglio dire, dell’Israele che chiude la porta al dialogo, che colonizza i Territori palestinesi, che assedia Gaza, che delegittima ogni interlocutore negoziale, anche il più moderato, come lo è il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

Una doppia scelta di campo, dunque. Perché l’altra Israele non sembra aver ascolto a Palazzo Chigi e neanche alla Farnesina. È l’Israele che si riconosce nell’appello sottoscritto da 800 personalità del mondo della cultura, della scienza, delle arti israeliane, tra cui i tre più affermati scrittori contemporanei, Abraham Yehoshua, David Grossman, Amos Oz. Un appello rivolto ai Parlamenti europei che si conclude così: «La vostra iniziativa per riconoscere lo Stato di Palestina farà progredire le prospettive di pace e incoraggerà israeliani e palestinesi a porre fine al loro conflitto».

A sostegno di questa linea si sono pronunciati anche numerosi Nobel per la Pace presenti a Roma, dal 12 al 14 dicembre scorsi, per il 14esimo Summit mondiale dei Nobel. Tra questi, la donna divenuta il simbolo della “Primavera yemenita”, Tawakkul Karman, Nobel per la Pace 2011: «Il popolo palestinese», afferma, «lotta per un diritto inalienabile: quello di essere libero dall’oppressione e perché anche in Palestina venga ripristinata la legalità internazionale. Ogni persona che ha a cuore la libertà dovrebbe sostenere questa rivendicazione». «Sono profondamente convinta», aggiunge Karman, «che dare soluzione alla questione palestinese, riconoscendo il diritto di quel popolo a uno Stato, sarebbe un segnale importante che la comunità internazionale lancerebbe a tutto il mondo arabo e musulmano: la diplomazia, e non le armi, può sanare le ingiustizie. E che libertà e diritti hanno una cittadinanza universale, ed è per questi valori che si sono battuti in Egitto come in Tunisia, in Siria come nel mio Yemen milioni di donne e di uomini». Non c’è nulla di estremista, di “antisionista”, in queste affermazioni.

Eppure, l’Italia glissa, rinvia, trincerandosi dietro il mantra, ripetuto stancamente, che il nostro Paese, in sintonia con l’Europa, è per una pace fondata sulla soluzione “a due Stati”. Peccato che per lo Stato palestinese lo spazio fisico si assottigli di giorno in giorno. Vale in proposito la riflessione di Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, in una intervista concessa a Left nemmeno un mese fa: «Non c’è spazio per un vero Stato palestinese. Basta osservare la carta della Cisgiordania per rendersi conto che una Palestina indipendente potrebbe nascere solo dopo un’azione militare d’Israele contro i propri coloni. Mi pare improbabile». E lo sarà sempre più se l’Europa non agirà, sul piano politico-diplomatico, per lanciare un segnale chiaro. I Parlamenti dei più importanti Paesi euromediterranei lo hanno fatto, approvando mozioni votate dalla sinistra come dai conservatori.

All’appello continua a mancare l’Italia. Non è prudenza, è bene rimarcarlo, ma subalternità allo stato di cose esistenti. Sulla Palestina Matteo Renzi ha “cambiato verso”. In direzione di Tel Aviv. «Su Israele e Palestina Renzi dice cose che neanche tutte le destre messe insieme…». Ad affermarlo non è un pericoloso estremista filo-Hamas. Ma l’allora “capo” della Ditta Pd: Pierluigi Bersani. Era il primo dicembre 2012 e all’Onu l’Italia aveva scelto, in extremis, di votare a favore dell’innalzamento della Palestina a Stato osservatore delle Nazioni Unite, lo stesso status del Vaticano.

«Finalmente l’Italia ha ripreso la dignità di un profilo di politica estera» dopo un decennio in cui «ci ridevano dietro», fu la riflessione aggiuntiva di Bersani. Di diverso avviso era l’allora sfidante fiorentino: «talvolta Israele eccede nella difesa, e dobbiamo dirlo, ma è tempo che la sinistra pronunci parole inequivocabili sul diritto di Israele di vivere senza minacce». E poi Renzi aveva rincarato la dose: «Io non sono così sicuro che bisogna per forza votare sì (sul riconoscimento Onu della Palestina). Non è solo il governo italiano a mostrarsi titubante, lo sono anche gli inglesi ed altri…. Non sono d’accordo con Bersani sul fatto che la centralità di tutto sia il conflitto israelo-palestinese. Il problema è generale di tutta l’area del Medio Oriente. E al centro c’è l’Iran. Dobbiamo noi Europa per primi ascoltare il grido di dolore delle ragazze di Teheran. Se non risolviamo lì, non risolviamo il conflitto israelo-palestinese. A Gaza cosa c’è scritto, infatti? “Grazie Teheran”».

l’articolo integrale su left in edicola sabato 20 dicembre 2014