Se un rom o un sinti facesse un lavoro “normale” sarebbe forse meno rom, solo perché non risponde all’immagine che noi abbiamo di loro? Ancora una volta, la diversità non è un problema dell’altro, ma nostro. Nostro, ma che noi facciamo diventare loro.

«Ma perché non vogliono abitare nelle case?»: ecco la domanda che rispecchia lo stereotipo più resistente da millenni a questa parte. Zingaro uguale nomade. Che, in quanto tale, “vive di espedienti”. E se così non fosse?

Se un rom o un sinti facesse un lavoro “normale” sarebbe forse meno rom, solo perché non risponde all’immagine che noi abbiamo di loro? Se, per esempio, una rom facesse la regista, fosse italiana e vivesse a Torino come Laura Halilovic, che dell’essere rom ha fatto un film? Senz’altro verrebbe considerata un’eccezione. Così come Dijana Pavlovic, attivista e politica di origini rom candidata alle Europee per L’Altra Europa con Tsipras e ormai volto noto della cultura rom.

Ma se queste eccezioni fossero una normalità che non conosciamo? Se un rom (che significa semplicemente “uomo”) fosse una persona “normale” e vivesse da anni (quasi venti per la precisione) in una città italiana che potrebbe essere Bologna, e da almeno la metà lavorasse con regolare contratto e contributi in un’azienda agricola? No, non sfruttato come quelli di Rosarno: gli “immigrati”, perfino se “zingari”, non lavorano solo sfruttati.

Aghiran è romeno e assieme al suo amico Constantin ha fondato perfino un’associazione, Rom pentru Rom (i rom per i rom), proprio allo scopo di non doversi sentire stranieri in una terra che contribuiscono a rendere più civile. E ancora: se costruissero sistemi di allarmi per le banche? O se facessero gli interpreti per la questura o il tribunale, dando una mano a stabilire un contatto fra le parti? O, magari, azzardiamo, facessero addirittura l’università e partecipassero a manifestazioni contro il governo o facessero parte di associazioni culturali universitarie con gli altri studenti di Scienze politiche?

Questa è la classe sommersa di rom e sinti che da generazioni abita l’Europa senza necessità di imporsi o sbraitare.

Ancora una volta, la diversità non è un problema dell’altro, ma nostro. Nostro, ma che noi facciamo diventare loro. Elèna vive a Mantova e lavorava come mediatrice culturale. Ora, come tanti dipendenti delle cooperative del Belpaese, è in cassa integrazione. È di origini slave, vive in Italia da quasi trent’anni, ovvero poco più della sua età. Da qualche anno lavora in una scuola materna della provincia. Peccato che il nome sia di fantasia. Perché: «A scuola non se lo sognano nemmeno che sono una rom. Non ho paura di perdere il lavoro perché il contratto è sicuro». Più che altro la stima: «In questi anni mi hanno conosciuto per la mia puntualità e per la mia affidabilità: se un giorno sparisse qualcosa sarei l’ultima persona a cui penserebbero. Ma se sapessero che sono rom tutto si capovolgerebbe e penserebbero subito che sono stata io».

Un mondo capovolto, quello in cui spesso vivono i rom, in cui più hai caratteristiche positive, più devi celare le tue origini: «A mio figlio (nato in Italia) non ho nemmeno insegnato la lingua». Al contrario di Bada, kosovara che vive a Vicenza e insegna romanì: «Sono la mamma di 5 figli; fino al 1998 ho vissuto in una modesta, ma bella casa in Montenegro con la mia famiglia. Purtroppo c’è stata la guerra nell’ex-Jugoslavia e ho dovuto abbandonare il mio Paese». A vivere in un campo per un periodo, ce l’abbiamo messa noi. Poi, lei e suo marito, una casa se la sono ripresa. Tra le altre cose, fa l’attivista per l’Associazione 21 luglio: «Il mio sogno è che un giorno tutti i rom e sinti vivano in una casa dignitosa e che i loro figli vadano a scuola, dove possano imparare tanto e avere tanti amici fino a laurearsi»: il sogno di tutti i genitori. Con una piccola sfumatura in più: «Sogno che vivano in una società dove non dovranno nascondere la loro etnia».

Il problema non è essere rom. Il problema, racconta sempre Elèna, con quell’orgoglio maltrattato che riemerge purissimo, è essere rom in Italia: «Guardo gli altri rom qui in Italia, e sottolineo, qui in Italia, e non mi sento come loro. Non c’è nulla da difendere in un certo stile di vita o in un modo di comportarsi. Ma per il mio paese, essere rom è una cosa normalissima. Lavoriamo tutti, e viviamo tutti in casa. Qui invece, se nessuno immagina che siamo rom tutti ci stimano». Potrebbe essere la nostra vicina di casa, Eléna. Ride, poi aggiunge: «Veramente sono io che mi scelgo i vicini di casa. Siamo molto schizzinosi. Se qualcuno ha fumato in ascensore, io non lo prendo». Viene da chiedersi chi dei due sia l’incivile. E naturalmente, come nella maggior parte delle case rom: via le scarpe appena si entra.

La casa padovana di Desyjana e Giovanni (operaio pugliese non rom) è la più pulita che abbia mai visto, è quasi imbarazzante: «ma scusa, perché ti sorprendi? Per lavoro pulisco le case degli altri!». Giusto. Gordo invece è montenegrino, vive a Roma. È un perito ferroviario, con una casa con mutuo a Morlupo e un lavoro alle Ferrovie dello Stato. Fra Gordo che fa il suo mestiere e la società nostrana, chiunque di noi avrebbe molti più motivi di insultare la seconda piuttosto che il primo. Ride, quando sente il tema dell’articolo: «Eh si: sono assolutamente normale». E aggiunge divertito:

«La mia famiglia non sa nemmeno cosa sia una roulotte. Come non lo sapevo io quando sono arrivato in Italia. L’ho imparato da voi, cosa fosse»

Anche lui però, preferisce non rivelare la sua vera identità. Buffo, se si pensa che una delle prime domande motivo di orgoglio per la nostra civiltà, consista nel dichiarare di che cosa ci si occupa. Loro, che lavoro fanno e come si chiamano, non possono dirlo, se dicono di essere rom.

Una che non ha mai fatto mistero delle sue origini, è la piccola Draga. Una “serba bolognese” che parla slang e dialetto del capoluogo felsineo dove frequenta Scienze della Formazione e divide la casa con altre ragazze. Ha 21 anni e due occhi neri giganteschi. Si laureerà a luglio ma già lavora come educatrice e come assistente al doposcuola con i bimbi delle elementari. È inarrestabilmente curiosa e intraprendente: «Abbiamo anche fatto partire un progetto per medie ed elementari con ragazzi che vengono dall’est e sono “zingari” come me. Lavoriamo sulla dispersione scolastica e partendo da un supporto scolastico cerchiamo di arrivare a un’integrazione tra pari. Perché questo siamo, bisogna che lo capiscano anche loro».

Anche Ivana fa l’università, Filosofia a Torino, è l’insegnante di danza: «Non gli dico subito che sono rom. Glielo dico dopo un paio di mesi: prima costruisco un rapporto che è come un muro contro il pregiudizio. Mi è capitato in un paio di casi che le persone non siano riuscite ad andare oltre, ma la maggior parte delle mie allieve è rimasta senza problemi». Ha 24 anni, Ivana, e abita con la sua famiglia in una casa popolare nel quartiere di Artom, un ex quartiere dormitorio nella periferia sud di Torino (zona Mirafiori), poi riqualificato tanto da aver ospitato i giochi invernali delle Olimpiadi del 2006. «Non ho problemi a dire chi sono, tanto nel mio quartiere siamo conosciuti: faccio volontariato da tre anni, con i ragazzi e con le donne. Il problema non è chi ci conosce, ma chi non ci conosce». Chi li conosce saprebbe che lei lavora anche come educatrice per «dare una mano come posso», la mamma fa lo chef in un ristorante italiano, e il papà l’aiuto cuoco, mentre il fratello, di due anni più grande l’artigiano: «e con le sue marionette fa spettacoli in giro per la città».

I problemi sorgono quando si sveglia l’attenzione dei media, racconta: «Sentono qualcosa in tv, e il loro cervello si accende. Si ricordano di quelli che abitano nelle roulotte e partono minacce e insulti senza senso. Non fa nessuna differenza dove io abiti o cosa faccia: è proprio una questione di ignoranza». E dall’informazione che accende animi e allarmismi. Un esempio? «Guarda il caso Isis. Io non ricevo minacce normalmente. Poi scoppia il caos e finiamo nel cuore degli insulti. Mia mamma è musulmana, non portiamo il velo, ma automaticamente siamo attentatori». E per di più, «zingari di m…».

Un altro giovane che rivendica serenamente la propria appartenenza è Fiorello Miguel Lebbiati. E lo fa con accento spiccatamente toscano, essendo nato a Fucecchio. A trentatre anni, lui gli incroci li racchiude tutti: è italiano, rom e anche sinto. «Se lavoro? – ride – da sempre! Fin da giovane, ho iniziato a 16 in un calzaturiero della provincia: venivo pagato pochissimo perché ero piccino. Poi ho fatto il muratore, e tanti altri mestieri fino a quando non sono entrato in una bottega». Lì ha inizio quello che è un vero e proprio apprendistato rinascimentale: «Camminando per Roma, se alza la testa, lei vede quello che io ho imparato a fare. Noi lo chiamiamo “stucchino”: tutto quello che nelle chiese – dai capitelli agli zoccoli, bozzati delle case, colonnati, decorazioni – l’ho fatto o curato io». Fra i suoi restauri, tutta la prima fase del campanile di San Francesco di Lucca, o la chiesa di San Jacopo di Lammari: «Gli stucchi della volta erano del 1200: mi tremavano le gambe quando me ne sono accorto». Abita nella preziosa cittadina d’arte con la sua compagna,

«convivo e paghiamo l’affitto come le persone normali», scherza

Compagna non rom così come la mamma della sua bimba. S., che ha 10 anni: «Ora è su che fa i compiti». Lei, seppur con un babbo attivista, non vive il disagio nel quotidiano: «Il problema è la televisione. Il disagio, per lei che è piccola e non ha difese, lo vive attraverso la mala informazione. A scuola S. è semplicemente S.». È molto orgoglioso delle sue origini e della sua famiglia, Fiorello. «Noi rom teniamo molto alla parentela», e ne ha ben donde perché la storia della sua famiglia racconta un pezzo della storia d’Italia: «Mia mamma è rom, nata a Empoli ma di origini montenegrine: mio nonno era fra quei bimbi rastrellati dai nazisti per i loro esperimenti e sopravvissuti ai campi di concentramento. Mio babbo invece è sinti, toscano anche lui e appartenente a quel ceppo in Italia dal Quattrocento. Andando a ripescare fra i cugini ci sono i partigiani che hanno fatto la Resistenza e uno zio appartenente all’Esercito italiano con medaglia al valore. Mi fa rabbia quando sento quei sedicenti nazionalisti dirci di andare “a casa nostra”: andate voi da qualche altra parte, perché l’Italia è anche mia». Riflette. Ci pensa un attimo, e aggiunge: «Anzi: lo dovrebbero sapere che ci sono dei rom e dei sinti che l’hanno resa libera da quelli come loro».

Intanto, a Napoli è nata una nuova identificazione per la residenza, o meglio sarebbe dire per l’etnia, giacché pare che la prima determini la seconda. Bello stampato sulla carta d’identità del piccolo, nato in Italia e al suo primo documento identitario alla voce residenza c’è scritto: Isolato Nomadi. A denunciare l’accaduto, la mamma, abitante del ghetto di Scampia in questione: «È nato in Campania e non si è mai spostato da Napoli, perché definirlo così? Tra l’altro nomade non è sinonimo di rom. Ora mio figlio ha vergogna di mostrare il documento, eppure doveva essere una gioia ricevere la sua prima carta d’identità». Figuriamoci quando sarà grande, a dichiarare che lavora.

Impicciarsi di come funzionano le cose, è più forte di lei. Sarà per questo - o forse per l'insanabile e irrispettosa irriverenza - che da piccola la chiamavano “bertuccia”. Dal Fatto Quotidiano, passando per Narcomafie, Linkiesta, Lettera43 e l'Espresso, approda a Left. Dove si occupa di quelle cose pallosissime che, con suo estremo entusiasmo invece, le sbolognano sempre: inchieste e mafia. E grillini, grillini, grillini. Dalla sua amata Emilia-Romagna, torna mestamente a Roma, dove attualmente vive.