Con il decreto Sblocca Italia che espone il Paese a nuove colate di cemento, con la riforma Franceschini che limita fortemente il ruolo delle soprintendenze e ora con la riforma della pubblica amministrazione, al voto in Senato, che svaluta del tutto le competenze di chi lavora nelle soprintendenze togliendo loro autonomia decisionale.

Non erano solo parole quelle del premier Matteo Renzi contro l’operato delle soprintendenze, nei discorsi pubblici , più volte tacciate di essere d’ostacolo alla modernizzazione. Come è nel suo stile il presidente del Consiglio è presto passato dalla parola ai fatti. Con il decreto Sblocca Italia che espone il Paese a nuove colate di cemento, con la riforma Franceschini che limita fortemente il ruolo delle soprintendenze e ora con la riforma della pubblica amministrazione, al voto in Senato, che svaluta del tutto le competenze di chi lavora nelle soprintendenze togliendo loro autonomia decisionale. Il disegno di legge Madia (1577/2015) sulla riorganizzazione dell’amministrazione statale, infatti, non solo reintroduce all’articolo 3 la famigerata norma del silenzio- assenso (per cui la mancata risposta della soprintendenza entro 90 giorni diventa automaticamente assenso) ma all’articolo 8 prevede addirittura la confluenza delle soprintendenze nelle prefetture.

«Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un governo della Repubblica. Anzi, si tratta dell’attacco finale e definitivo», commentano giuristi, archeologi e storici dell’arte come Stefano Rodotà, Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Con loro intellettuali e scrittori come Corrado Stajano, Dario Fo, Carlo Ginzburg e molti altri. Insieme hanno lanciato un appello (che si può firmare su Change.org) rivolto al presidente della Repubblica e al ministro dei Beni culturali chiedendo loro di «opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico».

Se il provvedimento dovesse passare, alla politica di drastici tagli al budget per la cultura, alla privatizzazione di importanti fette del patrimonio pubblico iniziata con la discesa in campo di Berlusconi e continuata da Renzi, si aggiungerebbe anche il congelamento degli enti pubblici di tutela. Con danni incalcolabili per il patrimonio d’arte disseminato per tutto il territorio italiano e che ha un intimo legame con il paesaggio.

Forse il premier Renzi non sa – e con lui il ministro Madia – che l’Italia non è solo il Paese con il maggior numero di siti Unesco, ma anche che è il Paese che per primo ha inserito la tutela dell’arte e del paesaggio nella Costituzione. Venendo poi presa a modello da molti altre nazioni, non solo europee. Il lungimirante articolo 9 della Costituzione della Repubblica italiana per altro non nasceva ex novo, ma sussumeva la lunga tradizione di salvaguardia del patrimonio d’arte preesistente nella Penisola all’unificazione politica.

Le radici di questa cultura civica e giuridica si trovano nella nascita dei comuni, a partire dal XII secolo, quando si sviluppò un concetto di cittadinanza secondo il quale i monumenti costituivano un elemento di identità civica e un bene comune della città ben governata. Come suggerisce Salvatore Settis pensiamo alla delibera della municipalità di Roma del 1162 sulla Colonna Traiana: «Per salvaguardare l’onore pubblico della Città di Roma, la Colonna non dovrà mai essere danneggiata o demolita ma restare così com’è, per tutta l’eternità, intatta e inalterata fino alla fine del mondo. Se qualcuno attenterà alla sua integrità, sarà condannato a morte e i suoi beni saranno confiscati dal fisco». Oppure pensiamo agli Statuti della municipalità di Siena (1309) in cui si legge: «chi governa la città deve in primo luogo assicurare la sua bellezza e il suo ornamento, essenziali alla felicità e alla gioia dei forestieri, ma anche all’onore e alla prosperità dei senesi».

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