«Vengo da Mirafiori Sud», racconta Stefano Di Polito, regista quarantenne figlio di operai Fiat. Ha da poco finito di scrivere e dirigere Mirafiori luna park, un film realizzato per «recuperare l’identità culturale della fabbrica, della protesta, della lotta per un’uguaglianza sociale», racconta a Left. Una pellicola a metà tra un documentario - con tanto di immagini di repertorio dell’inaugurazione mussoliniana con i suoi 50mila operai - e una fiaba, il film, prodotto da Mimmo Calopresti ed Eileen Tasca per Alien Films, sarà nei cinema dal 27 agosto. In scena va quello che Di Polito definisce «il grande rischio, l’incubo che abbiamo tutti di perdere il nostro passato di fronte a un futuro che in questo momento ci trova veramente soli». Un rischio personale e collettivo che si specchia in Mirafiori, luogo simbolo del lavoro più duro alla catena di montaggio, ma anche delle grandi proteste e delle conquiste della classe operaia italiana degli anni 70. Oggi Mirafiori continua a essere lo specchio dell’Italia: «Il percorso è tracciato ed è un percorso di oblio di tutto ciò che la cultura operaia ha rappresentato a Mirafiori. Le fabbriche sono una parte da dimenticare, erano luoghi di lavoro duro, violento e anche insano molte volte. Da dimenticare per chi ci ha lavorato e per chi li sorvegliava, c’è un po’ l’esigenza di rimuovere questa esperienza». Un vuoto ingombrante spesso riempito dal cinismo, che oggi consegna il quartiere operaio per eccellenza all’abbandono surreale. Il film ripercorre i luoghi reali: «Abbiamo giocato nel quartiere immergendoci in una realtà che era ferma dagli anni 80. La fabbrica si è svuotata, il quartiere è rimasto isolato e le persone sono invecchiate. Quando sono tornato ho ritrovato un paesaggio intatto, come un grande panorama dove le persone sono invecchiate. Questo quartiere ha festeggiato i 45 anni perché teme di non arrivare ai 50». Poche ore prima del nostro incontro, i sindacati (tutti tranne la Fiom) hanno firmato la proroga di un anno della cassa integrazione straordinaria con la Fiat Chrysler Automobiles di Sergio Marchionne. Fino al 25 settembre 2016 tutti i 4.110 lavoratori (3.805 operai, 243 impiegati e 62 quadri) seguiranno a rotazione corsi di formazione e rientreranno gradualmente in fabbrica. Come l’avranno presa a Mirafiori? «I miei genitori sono entrambi cassintegrati, quindi questa notizia mi fa arrabbiare, perché so perfettamente cosa significa ricevere a casa una cartolina con su scritto: sei in cassa integrazione. È un incubo. Se hai 50 anni o più non è facile reinserirti nel mondo del lavoro». Spesso i tre protagonisti Carlo (Giorgio Colangeli), Franco (Alessandro Haber) e Delfino (Antonio Catania) sono al centro di scene sovrapposte, tra un passato fatto di masse oceaniche in lotta e un presente che li vede da soli, al centro di una commedia amara, stendere uno striscione con su scritto “fabbrica occupata” e suscitare quasi sgomento nell’eseguire quel gesto. La fabbrica è luogo simbolo di molte contraddizioni: come quella tra la nostalgia per un passato di lavoro e conquiste sindacali che non esiste più e un senso di liberazione dalla fatica alienante, che muove invece a un sentimento quasi di rimozione. Orgoglio o liberazione? Per il regista, «sono fasi successive. Prima la rimozione, c’è il bisogno di costruire un’esperienza di vita meno faticosa. Oltre la fatica fisica, nessun psicologo ha mai analizzato lo stress di chi per 30 o 40 anni doveva avvitare oggetti e non aveva il tempo di andare in bagno, di chi non poteva fidarsi del vicino, con l’incubo del controllo». Poi, però, riemergono gli esempi: «Le persone che affrontano il lavoro e la fatica, che lottano per i loro diritti, che pensano come noi, è quello che vedevo e sentivo a tavola». A tavola, come nelle più classiche delle scene di vita quotidiana della famiglia operaia. Ed è proprio a tavola che si svolge quella che si può ritenere “la scena madre”, quando Haber (operaio e padre di famiglia) discute con il figlio che rivendica le sue tante ore di lavoro dietro a un computer. E i due faticano a capirsi. Scene che hanno il sapore di una calda scrittura autobiografica. «Beh», sorride Di Polito, «quella è la cucina di casa mia e io ero Stefania, la figlia. A quella tavola ho voluto rappresentare le persone, anche quelle della mia generazione, di quarantenni, che deve sentirsi responsabile. Nelle singole scelte quotidiane. Nel tentativo intimo e familiare di recuperare quegli insegnamenti ma anche nel tentativo pubblico e politico di tornare a farsi sentire, da lavoratori precari, partite Iva, da lavoratori creativi e non per forza solo da operai». Perché un film? «Forse la lotta in un momento come questo compete di più all’arte: sensibilizzare le coscienze. Perché è più libera, perché sono cambiati gli strumenti di lotta. L’arte e la buona informazione possono costruire una cornice intellettuale e artistica attorno a un messaggio, in modo che diventi ancora più politico, vivo e incisivo nella società». Insomma, questo film è un intimo e privato modo «per chiedere scusa a Mirafiori», ammette Di Polito. «Perché da una periferia si scappa e poi invece ci si riscopre fieri». Ma è anche e soprattutto un modo «per recuperare la memoria sentimentale», conclude il regista. «Perché se lasciamo che tutto passi solo dalla testa allora non è conveniente protestare, ma se stai parlando al cuore, parlando di te stesso, della tua famiglia, ti commuovi e rivivi le lotte e i rischi. La memoria sentimentale ti porta ad agire e costruire un luna park che è un futuro più leggero, più felice». Alla proiezione della prima, a Torino, l’intero quartiere ha ritrovato questa “memoria sentimentale”. Sarebbe bello se ogni fabbrica potesse vivere questo momento quasi liturgico della propria vita operaia.

«Vengo da Mirafiori Sud», racconta Stefano Di Polito, regista quarantenne figlio di operai Fiat. Ha da poco finito di scrivere e dirigere Mirafiori luna park, un film realizzato per «recuperare l’identità culturale della fabbrica, della protesta, della lotta per un’uguaglianza sociale», racconta a Left. Una pellicola a metà tra un documentario – con tanto di immagini di repertorio dell’inaugurazione mussoliniana con i suoi 50mila operai – e una fiaba, il film, prodotto da Mimmo Calopresti ed Eileen Tasca per Alien Films, sarà nei cinema dal 27 agosto. In scena va quello che Di Polito definisce «il grande rischio, l’incubo che abbiamo tutti di perdere il nostro passato di fronte a un futuro che in questo momento ci trova veramente soli». Un rischio personale e collettivo che si specchia in Mirafiori, luogo simbolo del lavoro più duro alla catena di montaggio, ma anche delle grandi proteste e delle conquiste della classe operaia italiana degli anni 70. Oggi Mirafiori continua a essere lo specchio dell’Italia: «Il percorso è tracciato ed è un percorso di oblio di tutto ciò che la cultura operaia ha rappresentato a Mirafiori. Le fabbriche sono una parte da dimenticare, erano luoghi di lavoro duro, violento e anche insano molte volte. Da dimenticare per chi ci ha lavorato e per chi li sorvegliava, c’è un po’ l’esigenza di rimuovere questa esperienza».

Un vuoto ingombrante spesso riempito dal cinismo, che oggi consegna il quartiere operaio per eccellenza all’abbandono surreale. Il film ripercorre i luoghi reali: «Abbiamo giocato nel quartiere immergendoci in una realtà che era ferma dagli anni 80. La fabbrica si è svuotata, il quartiere è rimasto isolato e le persone sono invecchiate. Quando sono tornato ho ritrovato un paesaggio intatto, come un grande panorama dove le persone sono invecchiate. Questo quartiere ha festeggiato i 45 anni perché teme di non arrivare ai 50».

Poche ore prima del nostro incontro, i sindacati (tutti tranne la Fiom) hanno firmato la proroga di un anno della cassa integrazione straordinaria con la Fiat Chrysler Automobiles di Sergio Marchionne. Fino al 25 settembre 2016 tutti i 4.110 lavoratori (3.805 operai, 243 impiegati e 62 quadri) seguiranno a rotazione corsi di formazione e rientreranno gradualmente in fabbrica. Come l’avranno presa a Mirafiori? «I miei genitori sono entrambi cassintegrati, quindi questa notizia mi fa arrabbiare, perché so perfettamente cosa significa ricevere a casa una cartolina con su scritto: sei in cassa integrazione. È un incubo. Se hai 50 anni o più non è facile reinserirti nel mondo del lavoro». Spesso i tre protagonisti Carlo (Giorgio Colangeli), Franco (Alessandro Haber) e Delfino (Antonio Catania) sono al centro di scene sovrapposte, tra un passato fatto di masse oceaniche in lotta e un presente che li vede da soli, al centro di una commedia amara, stendere uno striscione con su scritto “fabbrica occupata” e suscitare quasi sgomento nell’eseguire quel gesto.

La fabbrica è luogo simbolo di molte contraddizioni: come quella tra la nostalgia per un passato di lavoro e conquiste sindacali che non esiste più e un senso di liberazione dalla fatica alienante, che muove invece a un sentimento quasi di rimozione. Orgoglio o liberazione? Per il regista, «sono fasi successive. Prima la rimozione, c’è il bisogno di costruire un’esperienza di vita meno faticosa. Oltre la fatica fisica, nessun psicologo ha mai analizzato lo stress di chi per 30 o 40 anni doveva avvitare oggetti e non aveva il tempo di andare in bagno, di chi non poteva fidarsi del vicino, con l’incubo del controllo».

Poi, però, riemergono gli esempi: «Le persone che affrontano il lavoro e la fatica, che lottano per i loro diritti, che pensano come noi, è quello che vedevo e sentivo a tavola». A tavola, come nelle più classiche delle scene di vita quotidiana della famiglia operaia. Ed è proprio a tavola che si svolge quella che si può ritenere “la scena madre”, quando Haber (operaio e padre di famiglia) discute con il figlio che rivendica le sue tante ore di lavoro dietro a un computer. E i due faticano a capirsi. Scene che hanno il sapore di una calda scrittura autobiografica. «Beh», sorride Di Polito, «quella è la cucina di casa mia e io ero Stefania, la figlia. A quella tavola ho voluto rappresentare le persone, anche quelle della mia generazione, di quarantenni, che deve sentirsi responsabile. Nelle singole scelte quotidiane. Nel tentativo intimo e familiare di recuperare quegli insegnamenti ma anche nel tentativo pubblico e politico di tornare a farsi sentire, da lavoratori precari, partite Iva, da lavoratori creativi e non per forza solo da operai».

Perché un film? «Forse la lotta in un momento come questo compete di più all’arte: sensibilizzare le coscienze. Perché è più libera, perché sono cambiati gli strumenti di lotta. L’arte e la buona informazione possono costruire una cornice intellettuale e artistica attorno a un messaggio, in modo che diventi ancora più politico, vivo e incisivo nella società». Insomma, questo film è un intimo e privato modo «per chiedere scusa a Mirafiori», ammette Di Polito. «Perché da una periferia si scappa e poi invece ci si riscopre fieri». Ma è anche e soprattutto un modo «per recuperare la memoria sentimentale», conclude il regista. «Perché se lasciamo che tutto passi solo dalla testa allora non è conveniente protestare, ma se stai parlando al cuore, parlando di te stesso, della tua famiglia, ti commuovi e rivivi le lotte e i rischi. La memoria sentimentale ti porta ad agire e costruire un luna park che è un futuro più leggero, più felice».

Alla proiezione della prima, a Torino, l’intero quartiere ha ritrovato questa “memoria sentimentale”. Sarebbe bello se ogni fabbrica potesse vivere questo momento quasi liturgico della propria vita operaia.