Dopo il voto di giugno, quando il partito del presidente non ha ottenuto la maggioranza, sono ripresi gli scontri con il PKK, la repressione dei media e gli attacchi degli estremisti nazionalisti alle sedi dei partiti di sinistra

I 75 milioni di cittadini turchi (o meglio, gli aventi diritto) tornano al voto a pochi mesi dalle elezioni e in un clima quanto mai dominato dall’incertezza e dall’ansia. Le elezioni del giugno scorso sono state un campanello d’allarme per Recep Tayyip Erdogan e il suo partito, l’AKP. A sorpresa e per la prima volta nella storia del Paese, il partito pro-curdo HDP aveva fatto il pieno di seggi in Parlamento, arrivando al 14% dei consensi e per la prima volta in 13 anni l’AKP del sultano Erdogan non ha messo assieme un numero di parlamentari tale da garantirgli la maggioranza.

Da allora, in 5 mesi, Erdogan è riuscito a trasformare la Turchia in un paese in preda alla paura. L’attentato terroristico del 10 ottobre scorso alla stazione di Ankara, in cui sono morte circa 100 persone e più di 500 sono state ferite, è stato solo la punta dell’iceberg. Ma nei mesi si sono succeduti atti che hanno reso la Turchia un Paese instabile, come non lo era da molti anni: la ripresa del conflitto con il PKK e con i curdi, la chiusura di varie Tv dell’opposizione, di molti giornali e stazioni radio avvenuta a poche ore dal voto, gli arresti senza alcun motivo di giornalisti e intellettuali, il tentativo di oscurare la figura del chierico auto-esiliato negli Usa, Fetullah Gulen, che prima ha creato il leader islamico e poi ha cercato di distruggerlo, i tentativi di oscurare il ruolo della Magistratura, baluardo di una Costituzione laica. Questi mesi sono anche stati quelli del crescente protagonismo turco sul fronte siriano (il Paese ospita centinaia di migliaia di profughi).

Supporters of Turkish Prime Minister Ahmet Davutoglu and leader of the Justice and Development Party (AKP), wave Turkish flags, party s posters and a banner with former party leader and current Turkish President Recep Tayyip Erdogan, as they wait for Davutoglu to deliver a speech at a rally in Istanbul, Sunday, Oct. 25, 2015, ahead of the Nov. 1 general elections. (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Sostenitori dell’AKP (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Erdogan sente di non avere più in mano il Paese che lo ha eletto premier e poi presidente della Repubblica e i sondaggi situano l’Akp intorno al 41-43%, percentuale che non gli permetterebbe di ottenere i 276 seggi che gli servirebbero per governare da solo. L’ipotesi più probabile sarebbe quindi quella del governo di coalizione con il partito della destra ultraconservatrice dei lupi grigi, Mhp, che risulta il più vicino all’Akp, soprattutto per via della similarità ‘socio-culturale’ dell’elettorato dei due partiti. «Se l’Akp sarà costretto a formare una coalizione sappiamo che preferirà comunque il Mhp», scrive l’analista Kadri Gursel su al-Monitor. «Un’alleanza Akp-Mhp servirebbe a supportare il piano di Erdogan fino al raggiungimento dell’obiettivo di governare da solo, ma allo stesso tempo accentuerebbe la polarizzazione della Turchia, per non parlare di come sarebbe difficile terminare gli scontri con il Pkk, dal momento che il Mhp respinge ogni tipo di trattativa riuscendo a concepire solo una soluzione militare» aggiunge. Ma un’altra eventualità, molto più coerente con la politica del pugno di ferro che Erdogan ha applicato al Paese, si profila all’orizzonte. Il vice premier Mehmet Ali Sahin, ha dichiarato che in mancanza di un risultato chiaro alle urne, il Paese potrebbe tornare a votare per la terza volta consecutiva. L’idea è che, a forza di instabilità, la maggioranza die turchi decida di dare la maggioranza all’AKp pur di tornare alla normalità. Per Murat Yetkin, direttore di Hurriyet Daily News, qualunque possa essere l’esito del voto è la volontà del presidente Erdogan che sarà determinante alla fine. «Una coalizione significherebbe per il presidente dover rinunciare al suo piano presidenziale. Per questo motivo, Erdogan potrebbe arrivare anche a chiedere di andare a nuove elezioni anticipate» spiega Yetkin.

Il sistema elettorale

Il parlamento turco ha 550 seggi. La maggioranza è dunque a quota 276 seggi. Ne servono però 367 per approvare modifiche costituzionali direttamente e 330 per indire un referendum popolare su una modifica costituzionale. Erdogan spera ancora che il suo partito possa ottenere abbastanza seggi da poter emendare la costituzione in senso presidenzialista, in modo da affidargli maggiori poteri. Ma le possibilità che questo accada sono quasi nulle.
I parlamentari sono eletti con il sistema proporzionale in 85 collegi, ma c’è una soglia di sbarramento al 10%. In base al sistema turco se un partito ottiene 40 seggi con il 9,55% dei voti, come nel 2002 accadde al Partito della vera via, i 40 seggi vengono distribuiti tra i partiti che hanno superato il 10%. In sostanza il sistema favorisce i grandi partiti. Domenica i seggi saranno aperti dalle otto de mattino alle cinque del pomeriggio locali.

I partiti politici
Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) Il partito nato nel 2001 dall’alleanza di politici conservatori islamici di varia provenienza ha trionfato alle elezioni del 2002 e da allora guida il Paese. Con l’elezione di Erdogan alla presidenza lo scorso anno, nel primo voto popolare sul capo di Stato, alla guida del partito e del governo è arrivato Ahmet Davutoglu, ex ministro degli Esteri.

Partito repubblicano del popolo(CHP) Fondato nel 1923 da Mustafa Kemal Ataturk, padre della Repubblica di Turchia, il Chp, guidato da Kemal Kilicdaroglu, è il più antico partito del Paese e la principale forza d’opposizione. La sua piattaforma elettorale al voto di giugno era incentrata sul lavoro e l’economia con promesse di pensioni più alte, lotta alla disoccupazione giovanile e aumento del salario minimo. Il CHP è favorevole alla riforma della costituzione in vigore, figlia del golpe militare del 1980, ma dice no al presidenzialismo caldeggiato dall’Akp. Se il partito è cambiato con Kirlicdaroglu, molti elettori, in particolare i curdi e i fedeli islamici, lo percepiscono come elitista e secolarista.

Partito del movimento nazionalista (MHP) Il Partito del movimento nazionalista (MHP), i cosiddetti Lupi Grigi, formazione di estrema destra guidata da Devlet Bahceli, secondo i sondaggi manterrà il terzo posto in Parlamento. Il partito sostiene un certo grado di protezione dei diritti delle minoranze, ad esempio afferma che le cemevi, i luoghi di culto della minoranza musulmana alevita, vanno finanziate dallo Stato. Ma è fermamente contrario al processo di pace con il Pkk e promette di interrompere ogni negoziato se governerà.

Selahattin Demirtas, co-chair of the pro-Kurdish Peoples' Democratic Party, (HDP), speaks during a press conference ahead of the Nov. 1 general elections, at Ozgur radio station in Istanbul, Turkey, Friday, Oct. 30, 2015. The election is a redo of June elections in which the ruling Justice and Development Party, or AKP, stunningly lost its majority. The ballot comes at a sensitive time for Turkey, a key Western ally that has major issues to navigate. (AP Photo/Hussein Malla)
Selahattin Demirtas, leader dell’HDP (AP Photo/Hussein Malla)

Partito democratico del popoli (HDP) Descritto come la risposta turca al greco Syriza e allo spagnolo Podemos, l’HDP è un partito socialdemocratico che nasce della causa curda con la promessa di perseguire la pace con il Pkk e porre fine alle discriminazioni etniche, religiose e di genere. Ha un programma fondato sui diritti delle minoranze, delle donne e della comunità omosessuale, è stato fondato del 2012, co-presieduto da Selahattin Demirtas, stella nascente della politica turca, e Figen Yüksekdag. E’ l’unico in Turchia ad avere la metà dei candidati donne. Il partito si è presentato per la prima volta al voto di giugno, ottenendo 80 e seggi e il 13% dei consensi. In precedenza i candidati filo-curdi correvano come indipendenti per aggirare la soglia del 10%.