Vi riproponiamo l’intervista apparsa su Left n. 11 a Zineb El Rhazoui a tre mesi dalla strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo. In un dialogo con Left la scrittrice e giornalista della rivista satirica, ancora oggi minacciata da Daesh, si racconta: «Dal 7 gennaio la mia vita è letteralmente esplosa» e ci fa capire il senso della nuova copertina del numero speciale del settimanale che verrà pubblicato il prossimo 6 gennaio, esattamente un anno dopo quel giorno che «cambiò tutto».

Vi riproponiamo l’intervista apparsa su Left n. 11 a Zineb El Rhazoui a tre mesi dalla strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo. In un dialogo con Left la scrittrice e giornalista della rivista satirica, ancora oggi minacciata da Daesh, si racconta: «Dal 7 gennaio la mia vita è letteralmente esplosa» e ci fa capire il senso della nuova copertina del numero speciale del settimanale che verrà pubblicato il prossimo 6 gennaio, esattamente un anno dopo quel giorno che «cambiò tutto».

Arriva un quarto d’ora prima all’appuntamento. È scortata da alcuni agenti. Niente perquisizioni o formalità. Ma per tutto il tempo dell’intervista le guardie del corpo restano con noi nel luogo in cui la incontro, non lontano dalla redazione di Charlie Hebdo dove è avvenuta la strage. Lei è Zineb El-Rhazoui, la giornalista e sociologa delle religioni franco-marocchina scampata all’attentato del 7 gennaio scorso solo perché quel giorno si trovava a Casablanca. Da allora vive sotto scorta e ogni due o tre giorni è costretta a dormire in un posto diverso. Una vita di spostamenti continui da quando è stata colpita da una fatwa che ordina di ucciderla.
Zineb a diciotto anni è arrivata a Parigi per fare l’università, poi la specializzazione in sociologia delle religioni. A ventitré, all’università, quella del Cairo, ci insegna. A venticinque torna in Marocco. È lì che pensa di dover “fare la sua battaglia”. Scrive su Le journal hebdomadaire e insieme a un gruppo di amici fonda Mali (Mouvement alternatif pour les libértes individuelles). Viene arrestata più volte, non molla. Anzi: partecipa alla primavera araba e nel 2011 diventa portavoce del Movimento del 20 febbraio. Ma quando la repressione si fa troppo dura, Zineb è costretta a fuggire in Slovenia, dove rientra nel programma International cyties of Refuge network che dà rifugio a scrittori e giornalisti perseguitati. È qui che la sua vita incrocia quella di Charlie Hebdo, settimanale satirico, ateo e anarchico. Comincia a scrivere per loro articoli sul mondo arabo e sulla «decostruzione dell’ideologia integralista». Poi un giorno la chiama Charb, il direttore, e le dice: «E se raccontassimo la vita di Maometto?». Lui disegna, lei scrive. Era il 2013. Ora è tutto cambiato.

Tutte le foto sono di Francesca Fago
Tutte le foto sono di Francesca Fago

«Quanto tempo abbiamo? Venti minuti»? «Non c’è fretta, ho tutto il tempo che le serve, viene da cosìlontano…»risponde sorridendo. Davanti a una tazza di caffè, cominciamo a parlare. L’eleganza distaccata della giovane intellettuale, nata a Casablanca e che ha girato il mondo, lascia presto il posto al tono appassionato e indignato. La voce a tratti si rompe dall’emozione. «Dal 7 gennaio è cambiato tutto. La mia vita è letteralmente esplosa.

je suis zineb left
La copertina del n. 11 di Left dedicata a Zineb

Io sto cercando una mia stabilità da così tanti anni…», accenna. «Ho trovato rifugio in Slovenia. E poi nella redazione di Charlie», racconta. «Prima come collaboratrice esterna, poi dal 2013 sono entrata a far parte del team». Tre settimane prima dell’attacco dei fratelli Kouachi, aveva deciso di tornare a vivere in Marocco. «Lo scorso ottobre mi sono sposata, volevo tornare a casa. L’ultima volta che ho pranzato con Charb, gli avevo detto che ero stanca. Eravamo d’accordo che avrei mandato i miei articoli da Casablanca e sarei tornata a Parigi di tanto in tanto. Così sono partita, ma non ho avuto neanche il tempo di aprire le valigie». Vivere in Marocco è diventato impossibile per Zineb, l’Isis la minaccia di continuo: «Scritto in un arabo altisonante e antico, con alcuni versetti del Corano il messaggio diceva “Sei scampata al glorioso attacco di Parigi dove i tuoi compagni di ateismo di Charlie Hebdo sono morti. Ma noi non chiuderemo occhio fin quando non ti avremo tagliato la testa». Lo stesso giorno, il 18 gennaio, un anonimo gruppo di giovani musulmani ha pubblicato un video su youtube: «Una voce meccanica diceva che la Sharia è chiara: chi ha offeso Maometto deve morire». Poi una terza minaccia, la più violenta, che intimava «l’obbligo di uccidere Zineb El-Rhazoui perché ha offeso il profeta» descrivendo macabri modi di esecuzione (schiacciarle la testa con sassi, sgozzarla o darle fuoco). «Hanno individuato e reso pubblico l’indirizzo del mio compagno e hanno diffuso una mappa di Parigi cerchiando i posti dove sono stata. Devono aver inter- cettato mie telefonate. Inevitabilmente, tutto questo cambia la vita. Devi schedare tutto, devi cambiare tutte le abitudini, non puoi an- dare a comprare il pane, non puoi incontrare chi vuoi. Non sono le condizioni migliori per lavorare, specie per chi, come noi, deve anche tentare di ricostruire il giornale». Non è difficile immaginare che tutto sia cambiato.

Nessun ripensamento da quando con Charb decise di pubblicare la vita di Maometto?
No, assolutamente. Sarebbe inutile. Lo avremmo fatto prima. Chi di noi è sopravvis- suto lo deve al caso, ora abbiamo un dovere. Charlie deve sopravvivere. I valori per cui ci battiamo non consentono compromessi. Sia- mo in guerra con persone che non vogliono uccidere solo noi, ma anche quello che rap- presentiamo. Se molliamo, cosa resta? Oggi uccidono giornalisti a Parigi perché disegna- no Maometto, domani potrebbero eliminare chi non ha pregato cinque volte al giorno, o in qualche altra parte del mondo, chi beve una birra o una donna che mostra i suoi capelli.

Come hanno reagito i media di fronte a ciò che è accaduto? Sono stati solidali?
Sì, gran parte dei media europei ha ripubblicato le vignette. Molto deludenti invece gli Stati Uniti, per esempio mi ha colpito la scelta del New York Times: nonostante rivendichi la sua libertà di parola, ha evitato di prendere posizione ed era un’occasione storica.

Qualcuno ha detto che Charlie Hebdo se l’è cercata, che siete andati oltre.
Va bene, diciamo pure che i redattori se la sono meritata… ma persone come Frédéric Boisseau che era al suo primo giorno di lavoro come portiere di una ditta che si trova nello stesso palazzo della redazione, che colpa aveva? I fondamentalisti troverebbero comunque un pretesto per uccidere. Questi criminali si definiscono musulmani e ci hanno condannato giudicandoci non musulmani. Applicano i dettami della Sharia.

Ci spieghi?
La giurisprudenza sunnita ha quattro “scuole”, in Francia prevale la dottrina Maliki, perché è la più diffusa in Paesi africani come Senegal, Mali, Algeria, Marocco e Tunisia. Gli ulema (gli uomini di legge coranica) di tutte e quattro le scuole, in effetti, dicono la stessa cosa: chi ha insultato il profeta deve essere ucciso senza dare la possibilità di redimersi, pur sapendo che l’espressione “insultare il profeta” non è chiara. Faccio solo degli esempi, per capirci: se io dico che la sua faccia ha la pelle nera, è un insulto e devo essere uccisa. Se dici che i suoi vestiti sono sporchi, idem. Certamente nell’Islam ci sono insegnamenti che incoraggiano a essere positivi e generosi. Vale per tutte le religioni, ma ci sono anche passaggi che spingono ad uccidere. È impossibile non vedere tutto questo. Come il fatto che questa ideologia criminale è finanziata dai potenti dell’Arabia Saudita e del Qatar.

 

Pensa che questa violenza sia intrinseca ai monoteismi?
Penso che tutte le religioni, anche i monoteismi, e molte ideologie, siano fonte di violenza. Come il nazismo, il comunismo sotto Stalin o Pol Pot. Per quel che riguarda l’Islam il problema non è il Corano che è semplicemente un libro scritto molti secoli fa e in un certo con- testo storico. Il problema è se un movimento politico come i Fratelli musulmani, divenuto partito che siede nel Parlamento egiziano, sostituisce la Costituzione con l’Islam. Gli integralisti non credono nella democrazia, pensano che si debbano applicare non le leggi degli uomini ma quelle di Dio. Un mio collega diceva che anche un libro di cucina, se preso alla lettera, può diventare micidiale: ti uccido se metti due cucchiai di zucchero invece di tre come è scritto! Il Corano contiene i pensieri di un beduino di quindici secoli fa. Possiamo leggerlo come opera letteraria, ma è un guaio se viene usato per il governo di una nazione. Lo stesso si può dire della Bibbia.

Più dei musulmani, sono stati i cattolici a querelare Charlie Hebdo per intimidirvi?
Spesso si dice che Charlie è contro l’Islam ma è falso. In più di trent’anni di vita, la rivista ha dedicato tre o quattro copertine alla religione musulmana. Siamo stati portati davanti alla Corte solo una volta, da un’associazione musulmana francese, nel 2006 quando il giornale prese la decisione di pubblicare le vignette danesi su Maometto. Conosco bene quella storia anche se non c’ero ancora, fu un gesto simbolico a favore della libertà di vignettisti e giornalisti di rappresentare e raccontare chiunque. Un modo per dire: non lascere- mo mai che i terroristi stabiliscano le regole. Quando ripubblicammo quelle vignette satiriche con la copertina di Cabu, partì la denuncia. Vincemmo il processo, perché in Francia non esiste il reato di blasfemia. Va detto, invece, che la Chiesa cattolica ci ha querelato e trascinato in tribunale undici volte, per delle vignette sul papa, su Gesù, su Dio. Ma abbiamo vinto tutte le cause.

Dopo la strage, i partiti di destra hanno soffiato sul fuoco, speculando sulla paura e ali- mentando il razzismo.
Ci sono punte di estremismo da entrambi i lati degli schieramenti, come se si specchias- sero gli uni negli altri. La destra sfrutta il terrore e alza la tensione, ma l’estrema sinistra filoislamista non sembra rendersi conto che nei Paesi arabi i fondamentalisti sono l’estrema destra conservatrice. Quando c’è stata la protesta in Francia contro i diritti degli omosessuali, in piazza c’erano estremisti musulmani e cattolici. Andavano mano nella mano. Quando si tratta di coartare le donne, il Vaticano va perfettamente d’accordo con l’Islam estremista.

Il Marocco ha una lunga tradizione pre-islamica, i libri di Fatema Mernissi ci hanno fatto conoscere l’antica cultura berbera in cui le donne godevano di una libertà impensabile nell’Islam.
Quei libri sono stati fondamentali per la mia formazione di giovane marocchina in lotta per i diritti delle donne. L’ho incontrata molte volte, è una donna meravigliosa. Ma sono cambiate tante cose da quando Mernissi scriveva. Il Marocco conserva l’immagine di Paese tollerante, grazie alla corrente Sufi, raffinata e poetica. Negli anni 70 però la politica di Hassan II contrastò apertamente la sinistra, il nemico dei musulmani era proprio il comunismo. Lo Stato incoraggiò e sostenne la nascita di scuole e associazioni musulmane che si opponevano ai progressisti, in particolare dentro le università. Così è cresciuto un mostro. Oggi abbiamo un governo musulmano, eletto il 25 novembre del 2011, dopo una veloce revisione costituzionale, che nei fatti non ha rinnovato nulla, perché molte leggi non vengono applicate: ciò che conta è la decisione del re. Ci ritroviamo un governo islamico che è contro la differenza culturale portata dai vari gruppi etnici, che è contro l’amazighes, la lingua berbera, che è contro le donne. Abbiamo un ministro che accusa le donne che lavorano di creare disoccupazione, prendendo il posto degli uomini. Abbiamo anche un ministro delle Donne, della famiglia e dello sviluppo sociale, Bassima Hakkaoui, che va in giro velata sostenendo che una ragazzina di 14 anni può sposarsi se è già ben formata.

In Marocco c’è ancora una parte laica della società…
Certo, che discute di diritti delle donne, di aborto e altro. Abbiamo ancora i bar e andiamo in spiaggia non coperte da capo a piedi, ma quando parliamo di secolarizzazione della società i primi a contrastarla sono proprio la polizia, il governo, lo Stato. Oggi la monarchia marocchina si autodescrive come argine contro il fondamentalismo musulmano, ma il re governa il Paese con una legittimazione religiosa molto forte, quindi non si può criticare né lui né l’Islam. Possiamo discutere se sia moderato o meno, ma non cambia molto.

Alcuni intellettuali davanti al vuoto della politica, sostengono che le religioni debbano entrare nel dibattito pubblico. E accusano di razzismo chi critica le religioni. Lei cosa ne pensa?
Questo mi porta a parlare di Islamofobia. Il termine fu usato da un mullah iraniano ed è rimbalzato nella dialettica democratica occidentale. Serve per chiudere la bocca a chi critica l’Islam. D’altro canto, se islamofobia significa temere l’Islam radicale, penso sia legittimo. Boko Haram in Nigeria ha fatto stragi, ucciso bambini. Mi pare normale averne paura. Ma questo non significa essere razzisti verso i musulmani. Anch’io sono cresciuta nella cultura musulmana, ma il mio modo di pensare è completamente diverso e per molti aspetti opposto. Io sono atea. Nelle teocrazie musulmane, anche negli stati più moderati come l’Egitto e l’Algeria dove l’Islam è al governo, hanno strumenti legali (e non) per metterti a tacere, ti mettono in prigione, ti ammazzano. Nei Paesi secolarizzati non hanno strumenti legali, perciò usano l’unico che hanno a disposizione, ovvero accusarti di islamofobia. Lo fa anche certa sinistra, ma è un’impostura intellettuale. Dire alle persone che criticare dogmi religiosi scritti secoli fa nel deserto del Sahara vuol dire essere razzisti, è inaccettabile.

Bisogna saper criticare senza attaccare la persona?
Certo. Faccio un esempio: io sono contraria al velo, penso sia una prigione per le donne ma non significa che critichi chi lo indossa. Una cosa è criticare un dogma o decostruire una credenza, altra cosa è attaccare la persona. Quando critico anche aspramente l’Islam non voglio colpire le persone che si definiscono musulmane. Per me razzismo è quello di certi scrittori di sinistra che per non essere accusati di razzismo, accettano per gli altri quello che non vorrebbero per se stessi. Razzismo è pensare che siccome quelle persone appartengono ad un’altra cultura non sono in grado di condividere i valori universali di libertà e di uguaglianza.

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Foto in apertura di Francesca Fago