È il referendum dell’assurdo quello del 17 aprile sulle trivelle. Il governo ha deciso di boicottare la consultazione sul prolungamento “a vita” delle concessioni petrolifere in scadenza, quelle entro le 12 miglia al largo dei nostri mari, fissando una data a breve scadenza e negando l’accorpamento con il voto alle Amministrative. Significa un esborso di circa 360 milioni di euro per le casse dello Stato, ma la cifra potrebbe addirittura raddoppiare: la Corte Costituzionale, infatti, sta vagliando due conflitti di attribuzione (sulle trivelle a terra e sul coinvolgimento degli enti locali) che potrebbero diventare altrettanti quesiti, e quindi rendere necessario un nuovo appuntamento referendario sullo stesso tema. Da qui l’appello - caduto nel vuoto - al Presidente Mattarella a non controfirmare l’indizione delle consultazioni, anche per evitare un contrasto con il pronunciamento della Consulta, atteso per il 9 marzo. Su questo tema il governo è nel pallone. Con lo Sblocca Italia ha dichiarato “strategiche” le trivellazioni, esautorando di fatto Regioni ed enti locali da ogni decisione. Lo scorso dicembre poi, complice la pendenza di sei quesiti referendari (dei quali finora è sopravvissuto soltanto quello sulle concessioni già in essere), ha introdotto con la legge di Stabilità il divieto di ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa (poi il Mise ha rigettato 26 progetti) e garantito maggiore partecipazione agli enti locali. Anche l’allarme sulle trivelle al largo delle Isole Tremiti è rientrato: la Petroceltic, titolare della concessione, ha annunciato che non la utilizzerà. Dopo la notizia che anche la piattaforma abruzzese di Ombrina Mare non si farà, restano in piedi i progetti in Sicilia, quelli oltre le 12 miglia e i tre grandi giacimenti dove già si estrae petrolio: il Guendalina di Eni nell’Adriatico, il  Rospo di Edison davanti alle coste abruzzesi e il  Vega, anche questo di Edison, nel canale di Sicilia davanti a Ragusa. Questi ultimi, se passa il sì, alla scadenza delle concessioni dovranno cessare le attività. Il timore del governo è che, una volta raggiunto il quorum, la portata del referendum vada ben oltre la lettera del quesito e la vittoria del “sì” consolidi un consenso generalizzato ad arrestare l’italica “corsetta” al petrolio. D’altro canto, la mobilitazione dell’ultimo anno ha visto saldarsi le istanze di comitati locali, associazioni ambientaliste, sindaci e Regioni. E nel frattempo cadono progressivamente anche le ragioni di chi spiegava che «se non lo facciamo noi, il petrolio lo estrarranno i nostri dirimpettai». Il primo ministro croato Tihomir Orešković ha annunciato di recente una moratoria delle perforazioni, mentre i NoTriv pugliesi hanno chiesto al governo montenegrino, e a quello italiano che deve dare il consenso, di bloccare ogni attività di ricerca per gli evidenti rischi ambientali e per il pericolo di intercettare ordigni inesplosi. Ma tornando alle acque di casa nostra, a chi giova restare attaccati al greggio? Al di là (o forse a causa) delle pressioni delle lobby, le previsioni contenute nella Strategia energetica nazionale, datata 2013, enfatizzano il potenziale delle nostre riserve, i giacimenti ancora da sfruttare. «Le risorse potenziali totali ammontano a 700 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ndr) di idrocarburi (peraltro, dato che negli ultimi 10 anni l’attività esplorativa si è ridotta al minimo, è probabile che tali dati di riserve siano definiti largamente per difetto)», recita il documento politico-programmatico. Stando alle previsioni governative, “trivellando tutto il trivellabile” copriremmo l’intero fabbisogno italiano di gas e di petrolio per oltre 5 anni, che diventano 50 mantenendo l’attuale livello di ricorso agli idrocarburi estratti in Italia. Il documento, in realtà, chiarisce che le riserve “certe” ammontano a 126 Mtep, mentre sono soltanto “probabili e possibili” le restanti 574. Per Legambiente «le nostre riserve coprirebbero soltanto 8 settimane di fabbisogno nazionale, un’inezia rispetto ai rischi e ai costi che comporterebbe estrarlo». È un’assurdità, spiegano dal movimento NoTriv, dinanzi a un tracollo del prezzo del petrolio come quello attuale. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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È il referendum dell’assurdo quello del 17 aprile sulle trivelle. Il governo ha deciso di boicottare la consultazione sul prolungamento “a vita” delle concessioni petrolifere in scadenza, quelle entro le 12 miglia al largo dei nostri mari, fissando una data a breve scadenza e negando l’accorpamento con il voto alle Amministrative. Significa un esborso di circa 360 milioni di euro per le casse dello Stato, ma la cifra potrebbe addirittura raddoppiare: la Corte Costituzionale, infatti, sta vagliando due conflitti di attribuzione (sulle trivelle a terra e sul coinvolgimento degli enti locali) che potrebbero diventare altrettanti quesiti, e quindi rendere necessario un nuovo appuntamento referendario sullo stesso tema. Da qui l’appello – caduto nel vuoto – al Presidente Mattarella a non controfirmare l’indizione delle consultazioni, anche per evitare un contrasto con il pronunciamento della Consulta, atteso per il 9 marzo.

Su questo tema il governo è nel pallone. Con lo Sblocca Italia ha dichiarato “strategiche” le trivellazioni, esautorando di fatto Regioni ed enti locali da ogni decisione. Lo scorso dicembre poi, complice la pendenza di sei quesiti referendari (dei quali finora è sopravvissuto soltanto quello sulle concessioni già in essere), ha introdotto con la legge di Stabilità il divieto di ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa (poi il Mise ha rigettato 26 progetti) e garantito maggiore partecipazione agli enti locali. Anche l’allarme sulle trivelle al largo delle Isole Tremiti è rientrato: la Petroceltic, titolare della concessione, ha annunciato che non la utilizzerà. Dopo la notizia che anche la piattaforma abruzzese di Ombrina Mare non si farà, restano in piedi i progetti in Sicilia, quelli oltre le 12 miglia e i tre grandi giacimenti dove già si estrae petrolio: il Guendalina di Eni nell’Adriatico, il  Rospo di Edison davanti alle coste abruzzesi e il  Vega, anche questo di Edison, nel canale di Sicilia davanti a Ragusa. Questi ultimi, se passa il sì, alla scadenza delle concessioni dovranno cessare le attività.

Il timore del governo è che, una volta raggiunto il quorum, la portata del referendum vada ben oltre la lettera del quesito e la vittoria del “sì” consolidi un consenso generalizzato ad arrestare l’italica “corsetta” al petrolio. D’altro canto, la mobilitazione dell’ultimo anno ha visto saldarsi le istanze di comitati locali, associazioni ambientaliste, sindaci e Regioni. E nel frattempo cadono progressivamente anche le ragioni di chi spiegava che «se non lo facciamo noi, il petrolio lo estrarranno i nostri dirimpettai». Il primo ministro croato Tihomir Orešković ha annunciato di recente una moratoria delle perforazioni, mentre i NoTriv pugliesi hanno chiesto al governo montenegrino, e a quello italiano che deve dare il consenso, di bloccare ogni attività di ricerca per gli evidenti rischi ambientali e per il pericolo di intercettare ordigni inesplosi.

Ma tornando alle acque di casa nostra, a chi giova restare attaccati al greggio? Al di là (o forse a causa) delle pressioni delle lobby, le previsioni contenute nella Strategia energetica nazionale, datata 2013, enfatizzano il potenziale delle nostre riserve, i giacimenti ancora da sfruttare. «Le risorse potenziali totali ammontano a 700 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ndr) di idrocarburi (peraltro, dato che negli ultimi 10 anni l’attività esplorativa si è ridotta al minimo, è probabile che tali dati di riserve siano definiti largamente per difetto)», recita il documento politico-programmatico. Stando alle previsioni governative, “trivellando tutto il trivellabile” copriremmo l’intero fabbisogno italiano di gas e di petrolio per oltre 5 anni, che diventano 50 mantenendo l’attuale livello di ricorso agli idrocarburi estratti in Italia. Il documento, in realtà, chiarisce che le riserve “certe” ammontano a 126 Mtep, mentre sono soltanto “probabili e possibili” le restanti 574. Per Legambiente «le nostre riserve coprirebbero soltanto 8 settimane di fabbisogno nazionale, un’inezia rispetto ai rischi e ai costi che comporterebbe estrarlo». È un’assurdità, spiegano dal movimento NoTriv, dinanzi a un tracollo del prezzo del petrolio come quello attuale.


 

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