Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera i rifugiati afghani e iracheni sono bloccati a Idomeni. Tra proteste, scontri con la polizia e molti lacrimogeni. Cronaca dal confine greco-macedone

(Idomeni – Grecia) Né i colpi di pistola uditi al confine iraniano, né le urla della polizia greca che gli impedivano di attraversare il confine greco-macedone di Idomeni hanno fermato Javid, afghano di 24 anni. «Abbiamo visto la morte in faccia diverse volte», racconta a Left. «Non potevo rimanere in Afghanistan perché sono Hazara (una minoranza sciita, ndr) e i talebani credono di andare in paradiso se ci uccidono». Javid è in viaggio con la sua famiglia verso «l’Austria, la Germania, ovunque ci accettino», dice. Ma alla stazione di Polikastro, a 20km dal confine di Idomeni, Javid e una cinquantina di altri rifugiati sono costretti a resistere alle intimidazioni della polizia, che cerca in ogni modo di farli salire su un autobus diretto ad Atene. Anche con la violenza, quando i giornalisti non vedono. I bambini piangono. Le donne cominciano a urlare. Gli uomini restano uniti e non si fanno convincere dai poliziotti, che a un certo punto, per ingannarli, dicono loro che l’autobus è diretto al confine macedone. In un lampo il gruppo di afghani, zaino in spalla, si incammina lungo la superstrada che conduce alla frontiera: 20 chilometri a piedi con i pochi possedimenti che si sono portati appresso, attraversando le colline verdi e i villaggi dimenticati di queste terre di confine. Qualche ora dopo, le poche speranze rimaste si estinguono davanti alla schiera di poliziotti greciche intimano loro: «Non potete passare». In quei concitati momenti, le forze armate stanno rimuovendo dal campo tutti i rifugiati afghani, indipendentemente dalle loro storie e dalle loro situazioni personali, per caricarli su autobus diretti ad Atene, impedendo alla stampa di avvicinarsi per diverse ore. Chi riesce a resistere occupa i binari del treno e si rifiuta di muoversi. Un diciottenne di Kabul, Umaid, non crede ai suoi occhi: «Questa gente non ha ben chiaro il concetto di umanità», sbotta con il fiatone per la lunga camminata. «Facevo il giornalista e ho fatto un reportage di denuncia contro i talebani. Non avevo altra scelta che scappare per non farmi ammazzare». Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera per i rifugiati non siriani – afghani e iracheni – a Idomeni tornano gli slogan “Open the borders!” e “Help us Merkel!”.
Le proteste si placano per alcuni giorni, fino a lunedì, quando un gruppo dei circa 7mila rifugiati al confine ha forzato la barriera al confine. Un impeto di orgoglio intriso di frustrazione. […]

testo e foto di Nicola zolin


 

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