Non c'entra nulla il tifo, la posizione politica, l'essere turboinnovatori spinti o conservatori e non c'entra nemmeno l'essere poco inclini ad apprezzare questo governo. Si tratta di politica, in senso stretto (che poi è larghissimo) dell'avere cura dell'impianto costituzionale di un Paese, il nostro

No, mi spiace, no, non c’entra nulla il tifo, la posizione politica, l’essere turboinnovatori spinti o conservatori e non c’entra nemmeno l’essere poco inclini ad apprezzare questo cumulo che vorrebbe essere un governo. Si tratta di politica, in senso stretto (che poi è larghissimo) dell’avere cura dell’impianto costituzionale di un Paese, il nostro, che non ha ceduto in decenni di sotterfugi e tentativi di golpe ma che porta le ferite di una democrazia stressata da affaristi, puttanieri e combriccole assortite.

Partiamo dall’inizio: “la riforma che tutti aspettano” è la frase con cui Renzi, sorci e Verdini ci dicono che questa “è la volta buona” e già così lo slogan rimbomba di tutto il vuoto che contiene. Eppure non è vero che nessuno ha voluto cambiarla la Costituzione, anzi: sono in molti ad avere desiderato uno spostamento di poteri dal Parlamento al Governo o peggio ancora al leader e forse ci si ricorda che già una volta un referendum ha sventato un assalto.

Ci dicono che la riforma è necessaria per la governabilità e anche in questo caso sopraggiungono i ricordi peggiori: governabilità non significa “facilità di governare” ma “capacità di governare” e in un Paese frantumato in diverse posizioni (stiamo parlando di un’Italia in cui il partito di maggioranza è l’astensionismo, per chiarirsi) la varietà di sensibilità di cui tenere conto non sono nient’altro che le regole imposte dalla democrazia. Se avessimo adorato il feticcio della governabilità non ci sarebbe stata la Resistenza, ad esempio.

Dicono che il “bicameralismo perfetto” doveva essere superato già nelle intenzioni dei padri costituenti e ci dicono una cazzata di proporzioni mastodontiche: l’idea di semplificare la struttura parlamentare era sostenuta dall’esigenza di mantenere la centralità del Parlamento (Ingrao diceva “democrazia di massa”) e quel progetto non ha nulla a che vedere con una riforma che accentra i poteri locali e per di più conferisce più poteri al Governo. I padri costituenti li prenderebbero a calci, questi.

Ci dicono che questa riforma prevede finalmente “il taglio dei costi” e che chi si oppone vuole mantenere i privilegi della classe politica. E usano la carota come cerotto di una riforma immonda pensando di usare il populismo (loro, che gridano “populisti” agli altri) per giustificare un progetto di indebolimento della democrazia. Sappia Renzi (e i suoi) che gli basterebbe confezionare una legge ad hoc sul taglio degli stipendi, senza incollarla ad altre nefandezze, per avere tutto il nostro supporto, tutta la nostra energia e, in questo caso sì, la stragrande maggioranza degli elettori.

Dice Renzi che chi è contro la riforma in realtà lo fa contro di lui. Ed è lo stesso Renzi che ha personalizzato un referendum (costituzionale, per intendersi) come medaglia d’onore da appuntarsi al petto contro i suoi avversari gufi. Renzi, insomma, lamenta una dinamica che lui stesso ha creato e interviene al Parlamento con la solita arroganza paninara di chi vive la politica come viatico dell’affermazione personale. Gioca a carte con la Costituzione, ne fa il lecca lecca da esibire davanti ai compagnetti più sfigati e poi se ne lamenta. Il bue che dice cornuto all’asino.

Buon mercoledì.