Diario di una piccola incursione nel carcere di Rebibbia, a Roma. Dove un gruppo di detenuti si informa e fa informazione attraverso un Giornale radio. La carta stampata? Solo a pagamento. E l'accesso a internet non è autorizzato

Rebibbia, Roma. Il sole è ancora alto e il polline spadroneggia nell’aria. Cancello dopo cancello, arriviamo dentro l’istituto penitenziario. Il teatro della struttura è stato allestito per un convegno, nei corridoi incrociamo qualche detenuto, non scambiamo alcuna parola, non si può, ma i sorrisi quelli sì, si sprecano, tra le smorfie di curiosità e sorpresa nel vederci. Non facciamo nessuna foto, abbiamo lasciato il telefono all’ingresso, insieme agli altri oggetti personali. Tutto ciò che abbiamo sono un pass, un quaderno e una penna. Entriamo, nelle ultime file troviamo Marco, Federico, Luigi, Nicolò e gli altri delegati in rappresentanza della redazione del Giornale Radio di Rebibbia. Sono stati loro a “convocarci” qui, per questo incontro dal titolo “Libertà di parola. Il diritto delle persone detenute ad esprimere il proprio pensiero e ad essere informate”.

Si parla di carcere e informazione, del diritto dei detenuti a esprimersi e a essere informati. Da sei anni, insieme ad Antigone, una trentina di detenuti lavora a una trasmissione radiofonica, con un giornale radio settimanale che irrompe tra le note per raccontare la “vita detentiva”. Marco prende la parola, rappresenta l’intera redazione coordinata da Giorgio Poidomani. «Quando sono tornato a Rebibbia, quattro anni fa, ho scoperto questa radio e ne ho subito preso parte», racconta Marco che ha indosso un cartello con su scritto: “Io sono Giulio”, Giulio Regeni ovviamente. «Nonostante la Costituzione», riprende, «la maggioranza dei rei o degli inquisiti sono ancora oggi considerati dei reietti». Per questo il giornale radio raccoglie le esperienze di vita dei 1.700 uomini che scontano una pena tra queste quattro mura. «Lo facciamo per dare voce a quei ragazzi che sono chiusi in quelle celle».

Federico ci saluta, ha una copia di Left in mano e ce la mostra sorridendo. All’interno di un carcere è possibile fruire di carta stampata, ma a pagamento «e non tutti se lo possono permettere», sottolinea ancora Marco che nel farlo prende in mano una copia del Messaggero in “formato cortesia”, quello pensato ad hoc per gli istituti penitenziari. Cioè un formato ridotto. «Questo è l’unico quotidiano distribuito qui, vedete? Ha solo tre pagine. Niente sport, niente cultura… Di tanto in tanto arriva anche l’Avvenire che, si sa, è un giornale espressamente cattolico».

Come può vivere o, addirittura reinserirsi un detenuto che non abbia la chiara idea di cosa accade lì fuori? Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono soprattutto gli stessi detenuti. «Il sistema dell’informazione è cambiato, non è più come negli anni 80 e 90, oggi le notizie le trovi sul web», analizza il rappresentante della redazione. «L’informazione su internet è più libera, più vasta, più aggiornata e, soprattutto, gratuita. Ci pensate agli stranieri che così potrebbero informarsi sui loro Paesi d’origine e abbattere ogni barriera linguistica?», chiede e si chiede Marco.

Da sei anni, questi detenuti, provano a farla loro l’informazione, in entrata e in uscita. Marco mostra la pila di giornali che acquista ogni giorno. Leggono, Marco e i suoi colleghi, si informano. E informano gli altri detenuti senza censura, per il momento, sottolinea soddisfatto il redattore. «Anche se – ammette – c’è sempre un certo grado di autocensura, usiamo le parole meno forti… ci poniamo il problema». E lo ammette davanti alla platea intera, inclusi i vertici della Penitenziaria.

Diritto a essere informati e diritto a esprimersi, diritti politici, religiosi, diritti che vanno mantenuti anche quando si è in uno stato di restrizione di libertà. Sono tanti gli argomenti in discussione, troppi, per discuterli tutti oggi. Serve un’informazione costante, corretta. Che non faccia sensazionalismo, che non si fermi – anche morbosamente – al racconto delle storie dei singoli. Ma che sia specchio della realtà, il più possibile. Anche quando questa realtà è complessa, come dentro un carcere. Poco prima di terminare la relazione, Marco riporta le parole del suo compagno Federico: «È l’opinione pubblica che deve cambiare l’idea che si è fatta sui detenuti».