Una visita dal forte significato simbolico, ma niente scuse ai giapponesi. Quello di Obama sul disarmo atomico è un bilancio scarso, anche a causa dei freni repubblicani e dei rapporti con la Russia. L'occasione, dopo il Vietnam, serve semmai a rafforzare le alleanze asiatiche per contenere la Cina

Due storiche visite in pochi giorni, destinate a riaprire qualche vecchia ferita e a cementare le alleanze degli Stati Uniti in Asia. Una fissazione di politica estera di Obama, che dopo essere stato in Vietnam ed avere posto fine all’embargo della vendita di armi (e fatto il giro del web per la sua cena con la star Tv del cibo Anthony Bourdain), visita il Giappone e il 27 maggio, prima assoluta per un presidente Usa, Hiroshima, città distrutta dalla prima bomba atomica della storia.

La visita ha alto valore simbolico ed è stata annunciata qualche settimana fa da Ben Rhodes, consigliere e “comunicatore” della politica estera di Obama, con un post su Medium. E già in quell’occasione si mettevano le mani avanti: niente scuse ufficiali Usa per aver usato la bomba H. «Nel suo discorso il presidente non tornerà sulla decisione di utilizzare la bomba atomica», scrive Rhodes aggiungendo che il Paese resta fiero degli eroi che hanno combattuto per una giusta causa durante la Seconda Guerra mondiale e che Obama onorerà le vittime civili del conflitto. Stessa cosa ha detto Obama durante un’intervista con la Tv nipponica NHK sostenendo che «in guerra i leader sono chiamati a fare scelte difficili, sono gli storici a doverli giudicare. È una cosa che posso dire dopo sette anni e mezzo nella mia posizione».

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La visita ha un suo significato aggiuntivo: il presidente Usa ha vinto il premio Nobel per la pace molto criticato, soprattutto per l’impegno relativo al disarmo nucleare. A Hiroshima Obama farà un discorso dei suoi, alto e ispirato nel quale ribadirà la necessità di andare verso un mondo senza armi atomiche. Un discorso sensato, ma difficile da applicare se non con passi concreti e il concorso di un partner, la Russia, con il quale in questi ultimi anni  non corre proprio buon sangue. Sembrano lontani gli anni in cui si visse un periodo di buon vicinato che portò al nuovo Start, il trattato di non proliferazione firmato assieme a Medvedev a Praga nel 2010, dove l’anno prima il presidente Usa aveva parlato della speranza di un mondo senza atomica, impegnandosi a non sviluppare nuovi sistemi d’arma. E poi il famoso bottone con sopra scritto Reset, regalato dall’allora Segretario di Stato Clinton, al suo collega russo Lavrov.  In verità, in questi anni gli Usa hanno rinnovato il proprio arsenale nucleare impegnando una valanga di soldi. L’arsenale viene riammodernato e leggermente ridimensionato – armi più precise, più piccole e meno distruttive – per uno scambio con i repubblicani. Obama, insomma, non ha mantenuto la parola data, deludendo anche diverse figure di primo piano dello staff dei primi anni di presidenza. Certo, nei primi anni Duemila, le atomiche americane erano più del doppio di quanto non siano oggi e nel 1967 erano più di 30mila, ma il dato resta. Così come resta lo sforzo fatto per evitare che l’Iran entrasse a far parte del club dei Paesi atomici. Ci saranno proposte a Hiroshima? Idee? Azioni unilaterali? Improbabile. La visita sarà comunque l’occasione per rimettere il tema del disarmo nucleare al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e l’arresto al processo di disarmo non si può imputare solo al presidente Usa.

Quanto alle scuse, in Giappone c’è e ci sarà gran dibattito: il Paese ha digerito la sconfitta ed è divenuto, nonostante le tensioni che da decenni circondano la base militare americana di Hokinawa, un partner strategico di Washington, che, dopo la guerra, ha saputo costruire grandi amicizie con i Paesi sconfitti. Come ha detto a The Guardian il novantenne Tsunai Suboi, un sopravvissuto: «L’America ha la responsabilità di aver sganciato la bomba per prima, ma era solo una questione di tempo… il problema non è il passato ma dove e come lavoriamo assieme per eliminare le armi… l’uso dell’atomica arriva perché qualcosa era andato storto, non in America, ma nel genere umano». Ma c’è anche chi ritiene che senza scuse, o almeno senza riconoscere l’errore e l’orrore di aver sganciato la bomba, la visita sia inutile. I giapponesi pacifisti, che sanno che una parte delle responsabilità per la bomba risiede anche nelle scelte fatte dai loro leader dell’epoca, vorrebbero un atto coraggioso di Obama. Vedremo. Certo è che giapponesi e americani non possono vederla allo stesso modo. E che entrambi i Paesi hanno e mantengono una visione distorta della storia di quegli anni – la maggioranza degli americani ritiene che fu giusto sganciare la bomba, scelta che non aveva veri obbiettivi militari, e le atrocità commesse dai giapponesi sono un tabù in patria e oggetto di scontro perenne con coreani e cinesi. In questo senso, gli unici ad aver fatto i conti con la storia sono i tedeschi.

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Obama al vertice sulla sicurezza nucleare a Praga nel 2009 (Ansa)

La visita, come quella in Vietnam, ha sullo sfondo un altro grande tema: la Cina di Xi e dei rapporti non particolarmente fluidi. Obama si è trovato invischiato – ed ha reagito con parecchi sbagli o omissioni – in Medio Oriente, ma fin dal primo giorno del suo mandato è convinto che la sfida degli Usa sia quella di contenere e convivere con la superpotenza economica cinese. Il primo segretario al Commercio della amministrazione del presidente in carica fu Gary Locke, nato in Cina e fluente in mandarino e molte scelte iniziali furono rivolte a quel Paese. Poi l’avvento di Xi e la ricerca del Trattato di commercio nel Pacifico (Ttp), che coinvolge tutta la cintura di Paesi attorno alla Cina, hanno raffreddato il clima.

La scelta di vendere le armi al Vietnam e il rinnovo dell’amicizia con Tokyo, con il premier Abe che è più apertamente nazionalista che in passato (che ha proposto di riformare la costituzione pacifista), sono tutte forme di contenimento della Cina che anche gli amici asiatici vedono di buon occhio: a loro fa più spavento, forse, essere il cortile di casa di Pechino, come ai brasiliani o ad altri latinoamericani fa più piacere avere a che fare con i cinesi che non con gli americani.