Il No ha stravinto e Renzi si è dimesso. E adesso? Tra chi chiede un governo "responsabile" (D'Alema), chi elezioni subito (M5S) e chi un tavolo per rifare l'Italicum (Berlusconi), ecco cosa potrebbe succedere

Cosa è successo

«Come era chiaro sin dall’inizio, l’esperienza del mio governo finisce qui». Con queste parole Matteo Renzi mette fine, passata da poco la mezzanotte, alla lunga domenica referendaria e, insieme, al suo governo. Che dura, dunque, poco più di mille giorni.

E finisce perché il No ha vinto nettamente nel confronto sulla riforma costituzionale, proposta, approvata in Parlamento, e sostenuta nella campagna elettorale, direttamente dal governo. Che quindi paga il conto, tutto, anche se Renzi, in un composto e breve discorso, dice che a perdere è stato solo lui. «Ho perso io», dice il presidente del Consiglio, «in un’Italia dove non perde mai nessuno». E il governo, così, è solo la prima vittima (incolpevole, parrebbe) della personalizzazione.

Matteo Renzi, comunque, non può fare altro (e forse neanche vuole far altro). Mentre parla, le proiezioni e i dati che arrivano dai seggi danno al No quasi il 60 per cento dei consensi, con il Sì che vince sono in Trentino Alto Adige, come regione, e, nei comuni capoluogo, solo a Firenze, che è la prima città del Sì, col 56 per cento, a Milano, ma di un pelo, e a Bologna. Ci sarà ovviamente tempo per i dettagli – con qualche numero che magari cambierà – e per le conferme. Che a Renzi però non servono, perché la sconfitta è netta. Ed è fotografata già dai primi exit poll che girano nelle redazioni dei giornali (e quindi anche a palazzo Chigi) a metà pomeriggio.

Solo che erano persino ottimisti, i primi exit poll, con Masia, il sondaggista di La7, che – per dire – dava il No al 55 per cento. Quello che si delinea dopo solo mezz’ora di scrutinio è invece «un dato inequivocabile», come dice Renzi. Che può consolarsi solo con l’affluenza. Se questo è stato un voto anche contro di lui – è infatti il ragionamento che si fa ma non si dichiara – è stato anche un voto a suo favore, con un bel 40 per cento (ricordate le Europee? Il Sì prende oggi più o meno gli stesi voti presi allora da Pd e Ncd) di «sostenitori del Sì». Sostenitori a cui Renzi si rivolge direttamente in conferenza stampa e che oggi più che mai deve far passare come suoi: «Fare politica andando contro qualcuno è facile, fare politica per qualcosa è più difficile ma più bello», dice Renzi, «a chi si è speso per il Sì».

Cosa succede adesso

Con il suo discorso Renzi ci porta tutti al 5 dicembre. Al giorno dopo, che sarà il giorno delle dimissioni, anche se il governo ovviamente continuerà a lavorare – come ricorda Renzi – tentando di portare a casa la legge di bilancio e i decreti sul terremoto. Il segretario e premier del Pd, però, salirà al Colle e rimetterà il suo mandato.

E poi? Movimento 5 stelle e Lega Nord chiedono di andare subito al voto, senza neanche modificare la legge elettorale (modifica di cui ci sarebbe bisogno, teoricamente, valendo l’Italicum solo per la Camera). Di Maio e Di Battista («Non dite più che siamo quelli dell’antipolitica», ha detto Dibba, «siamo quelli della Costituzione») hanno spiegato che sarà il prossimo parlamento a fare semmai una nuova legge, visto che si può votare con il ciò che uscirà dalla sentenza attesa sull’Italicum. Lo scenario del voto immediato però è il meno probabile. E non solo perché Forza Italia con Berlusconi ha subito aperto a «un tavolo per cambiare l’Italicum».

Mattarella infatti proverà la strada di un governo di scopo, sicuramente e a prescindere dalle dichiarazioni di Berlusconi, anche e proprio per fare una nuova legge elettorale. Franceschini, Grasso, Padoan. Avventurarsi nei retroscena non vale la pena: meglio attendere. Ma qualcosa ci sarà (con D’Alema che si appella alle forze responsabili  – ! – per evitare il voto subito). E c’è chi spera persino in un Renzi bis, a cui Mattarella potrebbe chiedere di prendersi l’onere. Anche questo scenario è però poco probabile.

Non fosse perché Renzi per ora l’ha stoppato, sempre parlando in conferenza stampa. «Consegnerò la campanella al mio successore, chiunque sarà, con tutto il lungo dossier delle cose fatte e delle cose da fare», dice Renzi chiudendo così, almeno per il momento, a un secondo mandato. Tentazione che al Colle però c’è, come sembrerebbe confermare lo stesso con un messaggio per Mattarella recapitato con il tweet che anticipa l’inizio della conferenza stampa. «Arrivo, arrivo», scrive Renzi, con tanto di emoticon sorridente, evocando così l’attesa a cui costrinse tutto il Paese – ma soprattutto la stampa – nel giorno del primo incarico, quando rimase chiuso a lungo, riunito con il presidente.

Renzi sembra così concentrato a ritrovare la forma che questo referendum gli toglie. E se non vuole veramente cambiare mestiere deve darsi nuovo lustro: e per quello niente di meglio esiste che le primarie del Pd (il cui primo capitolo, a questo punto, è la direzione convocata per martedì). Primarie da anticipare, dunque, prima che la minoranza dem – hai visto mai – si riorganizzi. Vinte quelle, completata la colonizzazione del Pd (finora Renzi ha fatto i conti con gruppi parlamentari eletti ai tempi di Bersani), Renzi può tentare di tornare a palazzo Chigi. Questa volta dopo un voto.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.