Esplode la primavera, ma un vento gelido soffia su Palazzo Chigi. Renzi ripete che sul referendum costituzionale si gioca la testa e, alla Camera, le opposizioni lo lasciano solo. Il presidente della Consulta lo corregge e dice che si deve votare al referendum di domenica; anche Mattarella fa sapere, sottovoce, che andrà alle urne. Così, se il 17 aprile il quorum dovesse mancare, la scarsa partecipazione sarebbe colpa del premier e se invece il referendum avesse ragione, il suo successo sarebbe una sconfitta

Esplode la primavera, ma un vento gelido soffia su Palazzo Chigi. Renzi ripete che sul referendum costituzionale si gioca la testa e, alla Camera, le opposizioni lo lasciano solo. Il presidente della Consulta lo corregge e dice che si deve votare al referendum di domenica; anche Mattarella fa sapere, sottovoce, che andrà alle urne. Così, se il 17 aprile il quorum dovesse mancare, la scarsa partecipazione sarebbe colpa del premier e se invece il referendum avesse ragione, il suo successo sarebbe una sconfitta per Renzi.

Rien ne va plus! La ripresa resterà dello zero virgola, più di un commentatore, imbarazzato, comincia a prendere le distanze, il giglio magico del premier gracchia in televisione come un disco usurato. Dov’è la grinta con cui Renzi tolse la campanella dalle mani di Letta? Dov’è finita la gioia spaccona con cui ripeteva «li ho spianati, asfaltati». O gli squilli di tromba per il 42% alle europee, il peana che i giornali intonavano sulle riforme. Persino Boschi lo gela e non crede a complotti mediatici orditi dei magistrati.

In due anni la parabola del giovane leader si è consumata. Certo è possibile che resti ancora nel suo ufficio, che tagli nastri o porti il made in Italy a Teheran o a Dubai. Finché qualcuno non avrà mostrato che un’alternativa è praticabile. Ma non sarà più lo stesso. Premier per necessità, in mancanza di meglio, tollerato ma non amato, se non da coloro ai quali, di volta in volta, concederà un bonus, prometterà un incarico, procaccerà un affare. Così giovane e già così consunto, con le ali impiastricciate nel petrolio di Tempa Rossa. Lobbista di governo tra i lobbisti per le aziende.
Destino triste il suo, ma non solitario. Cameron sta annegando nel mare di denaro off shore che si celava a Panama. Sanchez, il socialista spagnolo, ha avuto paura di dar vita a un governo “del cambio” e sta spingendo il Paese verso nuove elezioni se non nelle mani dello “sconfitto” Rajoy. Valls e Macron, giovani leader miglioristi, fanno finta di non vedere i giovani che trascorrono la Nuit debout, in place de la Republique, diventata simbolo di una Francia che forse ha smesso di annoiarsi – La France s’ennuie, si scrisse prima del maggio ’68. Persino in America il cavallo di razza Hillary Clinton conquista delegati ma non convince, non commuove la middle class, non scalda i cuori dei giovani millennials, ora viene contestata anche dalle minoranze per aver investito più sul carcere e sulla repressione che sui giovani e l’istruzione.

Il fatto è che questa politica, di destra o di sinistra che sia, ma sempre realista, con tanti soldi e troppi polli di apparato, non pare autentica alla gente che la guarda dal basso, non sembra vera a chi sta fuori dal palazzo e non punta a entrarci come eunuco in una corte senza imperatore. La ragione è che chi è in basso ha capito che non si sceglie lì dove si pretende di farlo. Che Google e Facebook, Airbnb e Uber, Total e Pfizer decidono senza bisogno di chiedere permesso ai governi e ai professionisti della politica, i quali altro non fanno che adeguarsi.

Cosa resta, allora? Il populismo di Trump o Sanders, di Podemos o della Le Pen, che gli uni e gli altri, alla fin fine, pari sono? No, in una serie Netflix, The 100, si scontra chi vuol dire la verità al popolo dell’Arca, perché crede nell’umanità dell’uomo, e chi vuole nascondergliela per evitare panico e tumulti. Di sinistra è chi cerca la verità e la dice.

Questo articolo continua sul n. 16 di Left in edicola dal 16 aprile

 

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