La recensione dell'ultimo libro di Nicola Lagioia, La ferocia, che completa una trilogia sulla grande “mutazione”dei nostri anni.

Ho l’impressione che Simone Weil sia decisiva per la presente generazione di scrittori. In modo esplicito, con Christian Raimo, e in modo implicito, con Nicola Lagioia. Il suo romanzo La ferocia (Einaudi) si basa infatti su un assunto tipicamente weilliano: se ovunque tra gli esseri viventi domina la “ferocia”, la lotta bruta per l’esistenza, però nell’universo è anche ben reale il cuore umano, capace di sospendere miracolosamente la “legge di gravità”.

Nicola Lagioia, Ferocia, leftDi fronte alla spregiudicatezza criminaloide di Vittorio Salvemini (padre di quattro figli: Michele, Clara, Ruggero e Gioia), che diventa padrone della città (Bari), e alla innocente crudeltà degli animali, si erge l’utopia del quasi amore incestuoso amore tra Clara e il fratellastro Michele (il geniale idiota della famiglia).

La trama si sviluppa come un teorema, dentro un contenitore vagamente noir: tutto comincia dal suicidio (o presunto tale) di Clara, che pian piano corrode dall’interno relazioni sociali, ruoli di potere, dinamiche interpersonali, per far deflagrare una verità mostruosa. La scrittura di Lagioia affonda nel torbido della borghesia dei nostri anni, amorale e ipocrita, violenta eppure fragilissima( a differenza della borghesia d’antan.

La ferocia completa una trilogia sulla grande “mutazione”dei nostri anni. Stavolta però la mutazione ha prodotto qualcosa di inaspettato, e che forse sfugge di mano – fortunatamente – perfino all’autore. Un rischio della narrativa di Lagioia è l’eccesso di stilizzazione e premeditazione compositiva, l’esibizione della propria bravura tecnica. I suoi romanzi sono macchine affabulatorie inesorabili, dove tutto si corrisponde.

Qui la realtà viene descritta – con virtuosismo – al livello degli insetti (grilli, falene), intrecciando darwinianamente etologia e storia umana. Ora, la passione dell’esattezza di Calvino, senza la sua attitudine fiabesca e la sua pietas disarmata, si converte facilmente in sguardo algidamehte estenuato. Ma stavolta il personaggio di Clara – un po’ inafferrabile, a sua volta corrotta eppure con una nostalgia di felicità – sembra sfuggire al super-io letterario dell’autore, che vorrebbe controllare tutto. La pagina di Lagioia vibra di intelligenza antropologica, però dà il meglio di sé quando si abbandona senza calcolo all’imperfezione e all’imprevedibile della realtà.