In che modo è possibile commentare ancora, una vicenda che in questi ultimi cinque anni è diventata paradigma del malfunzionamento dello Stato e dei suoi apparati? Possiamo partire dalle parole di chi ha perso l’ennesima occasione per tacere.

Sono state scritte e pronunciate parole su parole negli ultimi giorni sull’esito del processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi. In che modo è possibile commentare ancora, una vicenda che in questi ultimi cinque anni è diventata paradigma del malfunzionamento dello Stato e dei suoi apparati (dalle caserme agli ospedali, dai tribunali alle carceri)? Possiamo partire dalle parole di chi ha perso l’ennesima occasione per tacere, e provare a replicare (non certo per rispondere a loro, la consideriamo una battaglia persa).

Come il senatore Carlo Giovanardi, sempre in prima linea quando si tratta di rilasciare dichiarazioni contrarie al buonsenso e al buongusto. Intervenendo nel corso della trasmissione di Radio24 La zanzara, Giovanardi afferma: «Spacciava per vivere, bisogna stare lontani dalla droga. Agenti penitenziari vittime, sono stati criminalizzati» e ancora «nelle perizie si legge che Cucchi ha mangiato se stesso, quando è andato in ospedale pesava 36 chili». In sole trentadue parole, ci sono già due bugie. Stefano Cucchi non spacciava per vivere, ma faceva il geometra, e quando è entrato in ospedale di chili ne pesava 45 (e solo due giorni prima del ricovero era andato nella palestra dove tirava di boxe). Che un parlamentare dica «Cucchi ha mangiato se stesso» – utilizzando un’immagine raccapricciante da film dell’orrore – è il segno di una tendenza ahinoi molto presente in una certa parte della politica: della morte di un ragazzo dentro un luogo dello Stato non abbiamo responsabilità, è molto probabile che sia morto per sua stessa colpa. E allora lo ribadiamo: se un cittadino è sotto la custodia dello Stato – sia egli completamente innocente o reo confesso di omicidio – lo Stato se ne deve prendere cura, deve garantire i suoi diritti e salvaguardare la sua dignità e la sua incolumità. Tutto ciò che avviene al di sotto di questo livello di garanzie, rappresenta una grave colpa e implica una responsabilità delle istituzioni.

Ci sono, poi, un paio di segretari di sindacati di polizia che mostrano il meglio di sé in queste situazioni, non rendendosi forse conto di quanti danni provocano alla loro stessa categoria. Franco Maccari del Coisp, piccolo sindacato nel dichiarare disprezzo verso la famiglia di Federico Aldrovandi, la dice così: «Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso. Se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia». Magari, Maccari – prima di guardare in famiglia – potrebbe provare a guardare la Costituzione, i trattati internazionali, le leggi. In Italia non c’è la pena di morte, e la tossicodipendenza – nel caso specifico – dovrebbe essere trattata come una questione sanitaria e non di sicurezza. Lo stesso Maccari trova incredibile che la famiglia di Stefano Cucchi dichiari come non sia «possibile che il proprio congiunto sia morto senza che qualcuno ne sia responsabile». Hanno proprio una faccia tosta, questi Cucchi, a chiedere da cinque anni il motivo per cui loro figlio è morto dopo sei giorni di prigionia, in un ospedale, con medici, infermieri, poliziotti carabinieri – insomma una sequela di pubblici ufficiali – che hanno avuto modo di incontrarlo e che avrebbero potuto comportarsi in maniera molto diversa.

Ma no, figuriamoci, nel nostro Paese chiedere verità e giustizia in processi come questo significa necessariamente essere “contro” le forze di polizia. Esprimendo concetti vittimistici come fa Tonelli del Sap: «Bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze». Dato che, secondo Tonelli, il poliziotto in quanto tale non ha la responsabilità del cittadino nella sua custodia, ma il cittadino ha responsabilità verso se stesso e se sbaglia, tanto peggio per lui, allora la proposta del gruppo di Sel nel consiglio comunale di Roma di intitolare una strada o una piazza cittadina a Stefano Cucchi (proposta votata dalla maggioranza dei consiglieri) è una vera scemenza. Il sindaco Ignazio Marino ha però replicato a Tonelli, dichiarando che di quella proposta è “orgoglioso”.

E sapete perché ha ragione il sindaco di Roma a esserne orgoglioso? Non perché Stefano Cucchi fosse un eroe, o un modello, o un santo. Semplicemente perché Stefano Cucchi era un uomo, ingiustamente trattato dallo Stato italiano che si sarebbe dovuto occupare di lui, morto per niente. Dove la magistratura è stata carente, dove i giudici non sono stati capaci di arrivare, è lì che si rende ancora più necessario restituire dignità e costruire memoria. Un piccolo segno, ma certamente non superfluo.