In un ex salumificio abbandonato e occupato da migranti, è nato il Maam museo dell’altro e dell’altrove. Con 400 opere donate da artisti affermati e nuovi talenti. Nasce così un bell’esperimento di convivenza. A colloquio con Giorgio de Finis, ideatore del progetto.

Con la scoperta di nuovi mondi e culture inevitabilmente l’essere umano va incontro a cambiamenti e trasformazioni che lo renderanno sempre più umano. Ne sono convinti al Maam, il museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz_città meticcia. Parliamo di una ex salumificio sulla Prenestina, in parte occupato da famiglie di diverse etnie, in parte diventato spazio d’arte con 400 opere donate gratuitamente da artisti di varia provenienza: quadri, sculture e installazioni che hanno anche la funzione di “proteggere” gli abitanti dallo sgombero coatto da parte delle forze dell’ordine. All’interno si trovano e si ritrovano artisti affermati e non. Tutti insieme perché fanno parte di un unico soggetto di arte collettiva.

Abbiamo incontrato l’ideatore e direttore artistico del Maam, Giorgio de Finis, antropologo, filmaker e curatore indipendente, per farci raccontare il senso di questa sua invenzione e cosa ne sta nascendo, in un momento in cui, anche fuori dai confini nazionali, si comincia a parlare di questa originale esperienza di opposizione e proposizione.

«Più ci si allontana da Roma più un progetto come il Maam viene apprezzato», nota De Finis. «Paradossalmente nel vicino quartiere di Tor Sapienza, che deve convivere con le realtà di povertà presenti al Metropoliz, anche se tu fai arte sei comunque sempre nel posto dove vivono i Rom. Questo luogo è vissuto come un posto di devianza e illegalità, proprio mentre invece dall’altra parte del pianeta vieni celebrato. Per fare un esempio, stanno per arrivare artisti da Sidney. Lo Stato australiano finanzia il loro viaggio al Maam».

Il Maam è stato definito da alcuni una cattedrale laica del contemporaneo. Che ne pensa?

Può essere visto come una contro-istituzione. In una guerra tra ricchi e poveri, devi scegliere da che parte stare. Il Maam sta dall’altra parte della barricata, rispetto alla gestione istituzionale della cultura. Diventa una spina nel fianco degli altri musei ed istituzioni che, in qualche modo, noi sollecitiamo ad essere più attivi. Io non sono per dare spallate, ma per pungolare un po’.

L’atterraggio è riuscito, ora come continua il viaggio?

Il Maam ha una sua vocazione virale, è un modello esportabile ma non attraverso cloni fatti con autocad. Piuttosto come modo di fare aggregazione per la città, con artisti che lavorano insieme agli abitanti che ci vivono. L’elemento veramente nuovo del Maam è che si tratta di un museo abitato, Cesare Pietroiusti lo racconta come un museo reale versus un museo irreale. Uno spazio come questo non è un luogo da contemplare ma un posto abitato. E questo lo riempie di energia e di senso. Lavorare qui per gli artisti è una ricchezza. Devi confrontarti con questo disordine visivo, devi conquistarlo altrimenti sparisci, devi cercare di vincere la “disattenzione” degli abitanti, che accolgono il tuo lavoro ma non sono come i frequentatori dei musei tradizionali, che entrano nella “chiesa”, con un rispetto dovuto all’asetticità del luogo, per cui se c’è una briciola per terra è certamente un’opera d’arte. Qui è tutto da capire, se quella briciola è un’opera d’arte oppure è caduta a qualcuno che passava per caso. L’artista che viene qui veramente sta lavorando sulla luna. Quando esce torna a confrontarsi con le regole del fuori, torna ad essere Michelangelo Pistoletto, Alessio Ancillai, Veronica Montanino o Franco Losvizzero. Ed è anche giusto, altrimenti il nostro sarebbe un “noi” tribale. Chiunque può far parte del gruppo del Maam e può uscirne tornando ad essere individuo, qui non c’è una lobby, il gioco tra collettivo e individuale è molto chiaro.

Si potrebbe parlare di “arte collettiva” per questo insieme di pensieri autonomi che formano un unicum? Pistoletto ha avuto una grande simpatia per questa vostra idea…

Michelangelo Pistoletto a Biella vive in una fabbrica. Solo che lui l’ha comprata e ristrutturata mentre qui c’è stata l’occupazione dei blocchi precari metropolitani, io sono arrivato dopo. Pistoletto ha fondato una fucina di ricerca. L’arte è anche un messaggio globale e lui sostiene che l’artista debba smettere di essere star e farsi costellazione collaborando con altri talenti. Da questo nasce un esempio di arte collettiva come il Rebirth day, un giorno di condivisione mondiale intorno al progetto di Pistoletto intitolato Terzo paradiso (dei valori ecologici, politici eccetera). Perché l’arte può migliorare il mondo. Questa sua idea ci avvicina.

Avete progetti concreti di collaborazione con Michelangelo Pistoletto?

Andremo tutti insieme sulla luna per il Rebirth day. Quando Pistoletto ci ha chiesto come volevamo partecipare gli ho detto: «Ti porto sulla luna con noi». Grazie a Daniela De Paulis, porteremo nello spazio il progetto Terzo paradiso, insieme a schizzi e disegni di altri artisti. Con ripetitori e strumentazione Nasa di alta tecnologia, le immagini delle opere verranno lanciate nello spazio, rimbalzeranno sulla luna e torneranno sulla terra ricaptati. Ma c’è anche un altro progetto annunciato per il 22 dicembre: una piccola mostra nello spazio di Prestinenza Puglisi (Interno 14) intitolata Il Museo sulla Luna. Ci saranno schizzi originali e immagini di ritorno ripescate, rimbalzi dallo Spazio. Il testo critico che sto scrivendo si chiama “Houston, abbiamo un problema”. Ci sarà un’invasione di arte sulla Luna e questo creerà qualche sorpresa, le immagini continueranno a viaggiare nello spazio. Se dovesse capitare un’invasione aliena tra venti milioni di anni, forse, l’avremo causata noi!