Matteo Renzi taglia. Luigi Gubitosi accorpa le testate e privatizza. Il sindacato è sul piede di guerra. Rai: un carrozzone senza idee con «gravi problemi di identità», come dice Giovanni Minoli.

«Un’azienda con più di 11mila dipendenti che produce in outsourcing il 70-75 per cento di quello che trasmette – soprattutto negli orari pregiati – significa che ha dei fortissimi problemi di identità». Giovanni Minoli, uomo Rai per eccellenza, oggi voce di punta di Radio24, sintetizza in poche parole il male che rischia di azzoppare definitivamente il cavallo di Viale Mazzini: la morte delle grandi produzioni. «Se poi pensiamo che il resto viene prodotto quasi tutto dai collaboratori esterni, uno si chiede che cosa fanno quelle migliaia di dipendenti che stanno lì», dice.

La tv di Stato appare ormai come un carrozzone barocco, sprecone e incapace di pianificare un futuro di qualità per il servizio pubblico. Un pozzo senza idee, e senza fondo, a cui Matteo Renzi ha pensato di attingere a piene mani per finanziare l’operazione “80 euro in busta paga” con un taglio netto di 150 milioni dal bilancio. Eppure, a guardare i numeri diffusi dal direttore generale Luigi Gubitosi, l’esercizio 2013 si è chiuso con un timido utile di 5 milioni. Una piccola boccata d’ossigeno che però non garantisce per il futuro. Se il canone porta ancora nelle casse dell’azienda circa 1,7 miliardi di euro (con un tasso altissimo di evasione: il 27 per cento), gli introiti pubblicitari fanno pensare al peggio: in due anni Viale Mazzini è passato da 964 milioni di euro a 682, con un calo netto del 30 per cento.

Gubitosi, dg sopravvissuto a tre diversi presidenti del Consiglio, sa che in queste condizioni l’azienda rischia di naufragare e prova a correre ai ripari. Oltre a quotare in borsa il 30,5 per cento del colosso Rai Way – la società del gruppo proprietaria della rete di trasmissione e diffusione del segnale – il direttore generale ha presentato un piano di “dimagrimento” delle testate. Si chiama “Progetto 15 dicembre” (dalla data in cui nel 1979 nacquero il Tg3 e il Tgr) e prevede l’accorpamento di sei giornali diversi in due sole newsroom. La prima metterà insieme Tg1, Tg2 e Rai Parlamento. La seconda fonderà invece il Tg3, Rainews e Tgr. Il tutto senza che i contribuenti abbiano alcun trauma visivo. Volti e nomi delle singole testate, infatti, rimarranno invariati. Cambieranno “solo” le redazioni.

Chi sente il fiato sul collo sono soprattutto i giornalisti delle sedi regionali, su cui pende una mannaia pronta a calare da un momento all’altro. Perché la cancellazione delle redazioni locali adesso è possibile. All’interno del decreto Irpef del 19 aprile scorso, infatti, c’è una norma che esonera la Rai dall’obbligo di avere una sede per ogni regione. Uno strumento in più nelle mani di Luigi Gubitosi e del suo piano di razionalizzazione dei costi. Le uscite, in realtà, potrebbero diminuire anche senza licenziare nessuno. Basterebbe ottimizzare le risorse interne all’azienda, sfruttando al meglio proprio i giornalisti delle realtà locali. Che oggi lamentano un certo snobismo da parte dei tg nazionali a mandare in onda i loro servizi, preferendo invece prodotti confezionati all’esterno.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 15 novembre