Dopo 27 anni, sono stati sufficienti dei tumulti di piazza e la complicità dell’esercito nazionale per costringere l’ex presidente Compaoré a fuggire su un 4x4 via dal Burkina Faso.

Bisognerà pur andarsene un giorno, aveva detto. Blaise Compaoré, per 27 anni presidente del Burkina Faso, era convinto di poter scegliere lui la data. Non il 2015, quando sarebbe scaduto il suo quarto mandato elettorale. Più facilmente il 2020, alla fine del prossimo quinquennio da capo di Stato. Oppure – un cattolico non mette mai limiti alla provvidenza – quando Dio avesse deciso che fosse giunto il tempo.

Invece sono stati sufficienti dei tumulti di piazza e una certa complicità dell’esercito nazionale per costringerlo, lo scorso 31 ottobre, a fuggire su un 4×4 lungo le sconnesse strade di terra rossa del Burkina Faso. A un centinaio di chilometri dalla capitale lo aspettavano le forze speciali francesi, che l’hanno messo su un aereo e traghettato fino alla vicina Costa d’Avorio, suo momentaneo esilio. Ma la caduta di Blaise Compaoré non è quella di un dittatore qualsiasi. Impossibile liquidarla solo come l’ennesima rivolta contro un presidente a vita, per di più di un piccolo Stato africano senza nemmeno uno sbocco sul mare. Più che a Ben Ali, l’ex presidente del Burkina Faso somiglia a Muammar Gheddafi, di cui è stato a lungo sodale. Al pari della morte (fisica) del colonnello, la morte politica di Compaoré potrebbe travolgere il fragile equilibrio del Sahel. E rovinare i piani di Francia e Stati Uniti, che sul “piccolo Stato africano” hanno puntato come partner militare nella lotta al terrorismo.

François Hollande aveva provato in ogni modo a convincere Compaoré a non modificare l’articolo 37 della Costituzione per ripresentarsi a nuove elezioni. Il presidente francese aveva persino promesso – in una lettera del 7 ottobre scorso che l’Eliseo ha fatto circolare sottobanco – un aiuto per fargli avere un incarico internazionale prestigioso e ben remunerato. Come a dire: “Se vuoi il potere, ecco, te lo do. Però fammi la cortesia di non destabilizzare il Burkina, che ho i miei interessi a tenerlo tranquillo”. Per la Francia in questo momento gli interessi si chiamano “operazione Barkhane”, cioè il dispositivo in grado di garantire le missioni militari dell’Eliseo in Mali, in Repubblica centrafricana, in Niger.

Il Burkina ospita uno dei quattro pilastri dell’operazione, nonché un piccolo contingente di uomini specializzati in grado di intervenire rapidamente in caso di problemi. L’aeroporto di Ouagadougou è un punto focale anche per gli americani: da qui partono i droni che sorvegliano il Mali, il Niger e gran parte del Sahel. Una cooperazione iniziata nel 2008 e che è servita ad accreditare Blaise Compaoré come interlocutore privilegiato degli occidentali, a dispetto del suo passato di “signore della guerra”. Accusato di aver preso parte a tutti i conflitti africani degli ultimi venti anni, per proprio conto o in alleanza strategica con Muammar Gheddafi, Compaoré è riuscito lo stesso a costruirsi un’immagine molto più soft e a evitare di finire davanti alla Corte penale internazionale che, da organismo più politico che giuridico, ha preferito occuparsi d’altro.

La destituzione di Blaise Compaoré dimostra però che l’alleanza con Francia e Usa non è più una garanzia. O almeno non lo è se l’esercito non dà il suo appoggio. L’assalto al parlamento di Ouagadougou è stato possibile perché i soldati lo hanno permesso, non perché le forze popolari fossero soverchianti. Il generale Gilbert Diendéré, capo della guardia presidenziale, non è uomo da farsi trovare impreparato. La sua rete di informatori, che gli ha consentito di sapere in anticipo del colpo di Stato che si preparava in Guinea o della ribellione Touareg, gli avrà dato sicuramente conto delle intenzioni dei manifestanti. «Compaoré è stato sicuramente abbandonato da una parte dell’esercito», conferma Roland Marchal. «Da tempo in seno all’apparato militare c’è un dibattito acceso. Probabilmente gli ufficiali a lui più vicini devono aver calcolato il prezzo politico che avrebbero pagato continuando a sostenerlo. Hanno concluso che sarebbero stati molto più protetti accompagnando una transizione piuttosto che scontrandosi con la popolazione. Così facendo si sono garantiti una amnistia per tutte le questioni spinose avvenute sotto la presidenza Compaoré, sia a livello nazionale che internazionale: dall’assassinio del giornalista Norbert Zongo al sostegno ai ribelli in Costa d’Avorio, nessuno avrà interesse a tirare fuori questi dossier».

Blaise Compaoré, secondo le inchieste Onu, avrebbe partecipato con appoggio logistico al conflitto negli anni Novanta in Liberia e poi in Sierra Leone, fornendo armi e uomini a Charles Taylor, oggi a processo alla Corte penale internazionale; in Costa d’Avorio avrebbe sostenuto le Forces nouvelles di Guillame Soro, allora capo della ribellione contro il presidente Laurent Gbagbo e ora presidente dell’Assemblea nazionale; in Angola avrebbe ceduto, in cambio di diamanti, armi all’Unita, uno dei contendenti in campo. I suoi soldati, appena pochi mesi fa, sarebbe stati presenti nelle fila della Séléka, la ribellione centrafricana che ha deposto il presidente Bozizé e portato il Paese alla guerra civile.

In sostanza, Compaoré è stato il mediatore delle crisi che lui stesso ha creato. Probabilmente l’esercito ha negoziato anche questo in cambio di una soluzione rapida della crisi. Niente Corte penale, niente tribunali speciali. Per nessuno. Non è un caso, spiega Merchal, «che il rappresentante americano sia andato subito a Ouagadougou per chiarire le cose e ottenere rassicurazioni. Questa visita dice a tutti i potenziali attori della transizione che ci sono degli interessi occidentali in gioco, che le basi militari sono ancora necessarie e che deve essere chiaro a tutti che le conquiste ottenute non possono essere rimesse in discussione».

La sollevazione popolare in Burkina è stata laica, quasi una rarità in questi anni. Avrebbe avuto bisogno di una migliore conclusione: l’esercito ha mostrato che il potere resta alle armi. Ma per qualche presidente troppo attaccato alla poltrona, potrebbe essere una riflessione non priva di conseguenze positive.