Architettura di qualità. Senza archistar. Nella Capitale nuovi progetti ridisegnano il volto di quartieri degradati e privi di identità. Ma serve più impegno da parte della politica, dicono i progettisti che il 5 dicembre invitano gli amministratori a un confronto pubblico.

Con la sua storia millenaria, Roma, diversamente da altre città storiche come Firenze, ha avuto il coraggio di avviare un interessante confronto con l’arte e architettura contemporanea. Sono nati così negli anni scorsi l’Auditorium di Renzo Piano, spazi futuribili come il MAXXI a cui Zaha Hadid ha regalato linee sinuose e seducenti, ma anche il museo Macro ricreato in fiammeggiante chiave post punk da Odile Decq (e oggi tristemente ridotto a location per feste private).

Mentre altri progetti blasonati come la “nuvola” di Fuksas e la città dello sport di Calatrava sono rimasti a metà del guado. Di tutte queste tracce lasciate nella Capitale da archistar internazionali si è detto moltissimo su giornali e pubblicazioni di settore. Molto meno si è parlato invece di progetti di grande qualità architettonica, realizzati da studi forse meno famosi di quelli appena citati, ma veri protagonisti di una lotta silenziosa e quotidiana contro il degrado della Capitale.

Diversamente dai soliti nomi di grido che puntano a lasciare il loro segno inconfondibile qualunque sia il contesto, non inseguono il “sogno prometeico” dell’architetto demiurgo che impone la propria visione. Il loro obiettivo è creare ambienti per il vivere umano, basati su esigenze reali e di bellezza. Così a poco a poco stanno ridisegnando il volto di quartieri trascurati e di luoghi di transito come, ad esempio, quello intorno alla stazione Tiburtina dove sta nascendo La città del sole, con complessi abitativi che evocano palafitte integrate agli spazi pubblici.

Architetti di talento hanno dato una nuova identità a spazi prima anonimi come piazza Rolli e piazza dei Cavalieri in zona Portuense. Hanno recuperato splendide biblioteche nel centro storico come la Hertziana e la Lateranense e hanno valorizzato uno straordinario complesso di epoca romana: i Mercati Traianei. Ma hanno anche costruito scuole innovative, asili in periferia e strutture come il centro culturale Elsa Morante al Laurentino 38.

Certo, si tratta di interventi numericamente limitati. Del resto «gli edifici progettati da architetti sono non più del 2 per cento dell’edilizia globale» annota Carlo Ratti nel suo nuovo libro Architettura open source (Einaudi). Ma come racconta il teorico delle cosiddette “città sensibili” possono essere cellule vitali che aiutano a curare la città dal degrado. Assumendo il valore di progetti pilota, aggiungiamo noi, nella Capitale percorsa oggi da forti tensioni sociali, mentre la politica stenta a trovare risposte adeguate (vedi il pezzo di Paolo Berdini più avanti).

Intorno alla metà degli anni Novanta «Roma è stata per la prima volta oggetto di una serie di interventi riguardanti la progettazione e la riqualificazione di spazi aperti con il Programma Cento Piazze» ricorda l’architetto Paola Del Gallo curatrice di un convegno che si terrà il 5 dicembre alla Casa dell’architettura proprio per discutere della sfida del contemporaneo a Roma.

«Il programma prevedeva interventi che interessavano gli spazi pubblici di tutti i municipi e intendeva recuperare la qualità della vita. La maggior parte di quei luoghi sono stati abbandonati o manomessi», denuncia l’architetto. «Qualcuno dice perché mancano i fondi per la manutenzione, ma questa spiegazione non è convincente». Dove sono finite quelle intenzioni viene oggi da chiedersi non solo vedendo la “trascuratezza” delle piazze ma anche e soprattutto andando in quartieri come Tor Sapienza o Corviale.

«La storia di Tor Sapienza, ora teatro di scontri e proteste, è molto significativa – risponde Del Gallo-. Progettato ex novo negli anni 70 fa parte dei 64 quartieri di Piani di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), interventi di grande impegno finanziario e tecnico per la città. Ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbandono, inefficienza dei servizi, mancanza di veri spazi collettivi, disagio di chi vi abita e che si sente cittadino di terza categoria. Quando invece avrebbe potuto essere un’occasione per disegnare la forma della città moderna. Luoghi così sono drammaticamente insicuri e ostili alla libera e armoniosa espressione della vita di una comunità».

Anche per questo oggi è più che mai urgente riflettere sulle cause di questo fallimento.«Sono pezzi di città nati astrattamente sulla carta – suggerisce Del Gallo -, sono quartieri dormitorio nati con l’idea di soddisfare i soli bisogni primari ma in essi non troviamo alcuna bellezza e qualità urbana. Se vogliamo tornare ad essere una città di accoglienza dobbiamo pensare a come rigenerare tante parti di Roma. Non è presunzione dire che senza una buona architettura ciò non è possibile».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 29 novembre 2014