Ferenç Platko è stato un grandissimo portiere degli anni Venti. Il Barcellona lo chiamò per sostituire il grande Zamora. E il poeta Rafael Alberti scrisse un’ode per lui.

Frenç Platko era nato il 2 dicembre del 1898 a Budapest, seconda città di un impero come l’austro ungarico, secondo soltanto all’immensa Russia degli Zar. Eppure Austria e Ungheria mantenevano ben separati i sovrani, i governi, i parlamenti, gli eserciti e gli stessi nascenti campionati nazionali.

Ferenç Platko esordì nella massima serie magiara nel 1916 tra i pali del Vasas. Aveva 17 anni, capelli biondi, mascella quadrata, collo da pugile e mani che facevano paura. E la paura intanto era passata insieme alla Grande Guerra che aveva segnato la fine dell’unione tra l’impero Asburgico e la Corona di Santo Stefano e determinato un’enorme riduzione territoriale dell’Ungheria la quale, in veste di Paese scatenante il primo conflitto mondiale, non venne ammessa alle Olimpiadi di Anversa del 1920. E fu proprio nel breve periodo della guerra civile, tra terrore rosso prima e terrore bianco poi, che Platko giocò le sue pochissime gare con una Nazionale tenuta ai margini dei palcoscenici di rilievo fino ai successivi Giochi del ’24 di Parigi dove i compagni di etnia ebraica seppero tuttavia ammutinarsi contro una Federazione piena di funzionari incompetenti e fedeli alla politica di discriminazione razziale di Miklòs Horthy, reggente di un Regno fantasma.

Peccato perché il gioco migliore, insieme a quello dell’Uruguay medaglia d’Oro, si vedeva proprio lì nella Mitteleuropa. E non a caso Platko aveva lasciato Budapest nel ’20 soltanto per andare a giocare nella vicina Vienna, dove tutti lo chiamavano Franz, così come accadeva a Praga nell’anno di militanza tra i ranghi dello Sparta. Prima di tornare a casa con l’Mtk, aveva anche passato un’estate in Serbia a fare l’allenatore dei portieri. E tra i portieri d’Europa il più forte era Ricardo Zamora, divenuto celebre proprio alle Olimpiadi di Anversa e messo fuori rosa dal Barcellona per aver osato chiedere l’aumento dell’ingaggio.

E il Barcellona volle sostituire uno come Zamora proprio con il venticinquenne Francisco Platko, la cui fama era giunta fino alla Primera Divisiòn: il circo dorato necessario per tenere in piedi l’agonizzante monarchia di Spagna. Platko vi rimase dal ’23 al ’30 vincendo sette titoli di Catalogna, la prima Liga spagnola della storia del club e tre coppe del Re. L’ultima, quella del ’28, richiese tre gare di finale contro i baschi della Real Sociedad sull’erba dello stadio Sardinero, davanti al mare neutro di Santander.

Durante la prima partita (dopo che il Barcellona subì il pareggio a sette minuti dalla fine) il gigante ungherese evitò il gol della sconfitta strappando la palla dai piedi del centravanti avversario lanciato a rete. Rimediò un calcio sulla fronte e sei punti di sutura, applicati secondo le regole poco estetiche della chirurgia di guerra. La ferita sanguinava ugualmente e il sangue filtrava copioso dalle bende. Eppure Platko tornò in campo a parare colpo su colpo, tiro su tiro e a lottare senza paura con la testa al livello dei piedi nemici ed esposta al fuoco amico dei propri difensori. Finì 1-1, così come la ripetizione giocata sette giorni dopo. Era maggio. A giugno, finalmente, il Barça vinse 3-1 e alzò la coppa.

Il poeta Rafael Alberti alzò la penna e compose un’ode, “Ode a Platko”: un grazie a Carlo Martinelli per averlo ricordato nel suo libro Campo per destinazione. 70 storie dell’altro calcio.