Il Jobs act colpisce ancora. Questa volta nel mirino l’Isfol, l’ente di ricerca vigilato dal ministero del Lavoro. Il fantasma - non ancora delineato - di un’Agenzia unica minaccia l’autonomia degli scienziati. Mentre 252 collaboratori sono “in scadenza”. Ed è già polemica.

Si scrive lavoro si legge precarietà. Persino dentro l’Istituto di ricerca sui temi della formazione, dello sviluppo sociale e del lavoro (Isfol), l’ente pubblico che monitora e valuta la bontà delle politiche sul lavoro, e cioè combatte precarietà (e disoccupazione). L’Isfol è uno dei 21 enti pubblici di ricerca del nostro Paese. Di questi, 14 sono vigilati dal Miur (ministero dell’Istruzione, università e ricerca), e gli altri dal ministero direttamente competente. Nel caso dell’Isfol, quindi, da quello del Lavoro al momento guidato da Giuliano Poletti.

La ricerca pubblica torna alla ribalta con le proteste dei ricercatori contro il Jobs act. In ballo ci sono i 252 posti di lavoro dei precari (ultradecennali) che vedono la data della scadenza dei loro incarichi – il 31 dicembre 2014 – avvicinarsi minacciosamente. Ma anche il futuro stesso della ricerca e della sua autonomia è agli sgoccioli. All’orizzonte, infatti, si intravede una riforma – il rivoluzionario Jobs act – che prevede un vero e proprio riordino del settore, inclusa la creazione di un’Agenzia unica del lavoro. Per i dettagli tocca aspettare che la discussione entri nel merito. Ma fuori dall’aula – e nelle piazze – è già in onda la protesta. I manifestanti non hanno dubbi: «È un bavaglio alla ricerca pubblica». In tempi di Jobs act, è il turno dell’Isfol.

L’AGENZIA UNICA

Nel testo con cui Matteo Renzi ha chiesto la delega in Parlamento – delega già ricevuta sia alla Camera che in Senato – la parolina “Isfol” non è scritta nemmeno. Quello che c’è, invece, è la previsione di una «Agenzia unica federale che coordini e indirizzi i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali». Un’agenzia nuova, quindi, che riesca a coniugare le politiche attive (di competenza regionale) e passive (statali). E che coordini le Agenzie regionali per il lavoro (non presenti in tutte le regioni). Anche se, a onor del vero, non sarebbero pochi gli ostacoli alla sua realizzazione. Su tutti, la necessità di riformare il Titolo V della Costituzione che assegna alle Regioni la «competenza esclusiva» in materia di formazione e lavoro.

Strutture simili le troviamo già in Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda. Ma in questi Paesi accanto all’agenzia «esistono istituti di ricerca che hanno la funzione di monitoraggio e studio sulle dinamiche del mercato del lavoro, ma anche della formazione», ribatte Domenico Pantaleo, segretario generale di Flc Cgil. «In un Paese con una disoccupazione strutturata che si avvicina al 33 per cento, serve una struttura che crei lavoro».

La necessità di un riordino, quindi, è condivisa anche dallo stesso sindacato. Quello che non è chiaro però, spiega Pantaleo, «è quale funzione avrà questa agenzia». «Il rischio – avverte il sindacalista – è quello di creare un’altra struttura burocratica amministrativa che alla fine anziché creare occasioni di lavoro finisce per accomodare e favorire un’ulteriore flessibilizzazione e precarietà nel mercato del lavoro e la gestione della precarietà diventa un’altra cosa». È una questione di autonomia, insomma.

L’AUTONOMIA

Che fine farà l’Isfol? L’ipotesi da non escludere è quella già avanzata in passato dall’ex ministro Sacconi: accorpare Isfol e ItaliaLavoro. Accorpamento o soppressione che sia, non cambierebbe il risultato: la nascita di un’Agenzia governativa che porterebbe con sé il superamento dell’autonomia.

«Sono molte le ragioni per cui l’autonomia è irrinunciabile», assicura Walter Tocci, senatore Pd e membro della settima Commissione permanente di Palazzo Madama, Istruzione pubblica e beni culturali. «C’è un’impostazione mainstream governativa che pensa di poter fare a meno della ricerca sociale nel campo del mercato del lavoro. Mentre questa attività di ricerca è quanto mai preziosa».

Per motivi tecnici, come quello di avere un controllo dell’evoluzione tecnologica che rende più problematica la trasformazione delle figure di lavoro. Ma soprattutto, sottolinea il senatore democratico, perché «quello delle politiche del lavoro è un terreno su cui spesso la demagogia impone delle verità precostituite, che poi i fatti dimostrano infondate. Da vent’anni si fanno leggi che promettono risultati miracolosi. Che poi non ci sono».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014