La politica marginalizza chi combatte la disonestà, uccide la partecipazione critica. E non controlla più i suoi uomini. Così si aprono le porte a mafie e corruzione. Il j’accuse di Nando dalla Chiesa. Rileggendo Gramsci.

«I partiti sono macchine in cui è consentito essere onesti, ma non combattere la disonestà». Sarà che siamo nel mezzo dell’inchiesta Roma Capitale, sarà che ha appena riletto Antonio Gramsci per l’edizione da lui curata de La questione meridionale (Melampo), ma Nando dalla Chiesa, professore di Sociologia alla Statale di Milano ed ex parlamentare con l’Ulivo, una vita in prima fila contro la mafia, va giù molto pesante nella sua analisi del rapporto tra politica e malaffare.

C’è una correlazione tra partiti poco partecipati e diffusione della corruzione?

Certo. Quello che sta accadendo deriva dal fatto che i meccanismi sono saltati. Un tempo le tangenti erano per il partito. Il fatto che adesso si rubi per sé indica un’altra etica della politica, strettamente legata a organizzazioni con sempre meno iscritti. Perché meno l’ambiente è pulito e trasparente, meno voglia c’è di partecipare. Un tempo le sezioni esercitavano un controllo territoriale: c’erano dei tratti morali fondati su una cultura condivisa, per cui si sapeva come vivevano i politici e cosa facevano – persino troppo. Oggi si accetta qualsiasi cosa: lo stile di vita delle persone non fa parte del dibattito pubblico. È giusto dividere il partito dall’amministrazione, ma doveva servire a rendere la cosa pubblica indipendente dalle pressioni di partito. Se invece significa farsi i fatti propri non è più funzionale a migliorare la qualità delle istituzioni. Anzi, le peggiora. Un conto è un circolo con 150 persone che partecipano perché credono in un ideale collettivo. Ma se la partecipazione è sempre più asciugata c’è chi punta a diventare membro del direttivo o a farsi candidare al consiglio comunale, nessuno fiata più. Nessuno contesta gli altri sapendo che poi la pagherà.

Quando è precipitata la situazione?

Tra gli anni Ottanta e Novanta c’è stata una sottrazione al controllo di partito dei comportamenti e delle scelte. Il meccanismo delle liste bloccate con il Porcellum ha fatto esplodere questa tendenza. Ormai c’è una grande forzatura da parte di chi controlla il partito a mettere i propri: passano gli “yes men”, non quelli che hanno più prestigio per vincere nei collegi uninominali. Questo fatto uccide qualsiasi partecipazione critica.

Nei circoli Pd ha mai sentito mal di pancia per questi fenomeni?

Viene inghiottito tutto. Se sollevi un problema, sei accusato di essere contro il partito. Nei circoli ho visto le stesse persone che facevano l’elogio di Veltroni sostenere Bersani e poi Renzi. Non è solo un problema di moralità, ma anche di decenza mentale. Mi rifiuto di andare in sedi dove la gente cambia entusiasticamente idea a seconda di chi comanda.

Veniamo all’inchiesta Mafia Capitale: c’erano indizi su quello che stava accadendo a Roma?

Gli avvocati che frequentavano i Cie o i Centri di prima accoglienza denunciavano da anni che le cooperative dai nomi più nobili facevano soldi a palate sugli immigrati, somministrando cibo rancido e incassando 35 euro al giorno. I testimoni lo raccontavano ai nostri corsi. Queste cose giravano. Eppure se a Roma 15 giorni fa andavi a dire “abbiamo un problema”, ti guardavano come un marziano: non venivi creduto. Questo significa non stare attenti a ciò che accade, alle persone che vengono frequentate. Se si pensa che la responsabile Welfare del Pd – quindi la persona che dovrebbe tracciare le politiche del partito nei confronti della cooperazione – scriveva a Buzzi «un bacio grande capo», è un pezzo di letteratura politica. Non è possibile che uno non si accorga di nulla. Adesso vengono fuori le facce più fetide di questa storia: se Roma è in mano a Carminati e Buzzi, ti immagini cosa ci fa la ‘ndrangheta? Se li mangia in un boccone! Per ora la mafia come organizzazione è venuta fuori poco, ma bisogna vedere cosa emergerà per davvero. La cosa migliore che ha fatto Mario Monti è di non aver candidato Roma alle Olimpiadi. Non finiremo mai di ringraziarlo, perché quelle che sembrano delle opportunità, in Italia sono delle sciagure.

Arriviamo così alla tesi del suo ultimo libro nel quale, rileggendo Gramsci, teorizza una colonizzazione “a rovescio” del Sud sul Nord.

È una colonizzazione silenziosa perché non viene combattuta. Persone legate alla ’ndrangheta riescono a stabilire rapporti con esponenti di tutti i partiti e della Pubblica amministrazione. E nei rispettivi ambiti non viene sollevato il problema, perché chi sta al Nord o al Centro pensa di non essere toccato dalla mafia. Il fatto di non vedere l’avversario agevola il nemico. Secondo punto: l’indisponibilità a pensare che il fenomeno coinvolga il partito. Vale per l’hinterland milanese, come per Roma o per Torino. Quando Gramsci scrive che, mentre gli intellettuali del Nord pensano all’impresa, alla ricerca e alle professioni, nello Stato entrano gli intellettuali del Sud, figli del ceto proprietario che ha sfruttato al massimo i contadini senza mai lavorare, ti dice che dentro lo Stato c’è una cultura parassitaria. Coglie bene il problema attuale, perché oggi tutto viene piegato a logiche particolaristiche, di rendita, di affari. Non voglio dire che tutto l’impiego pubblico sia così. Però basta guardare alla Sanità e scopri che la penetrazione calabrese è a macchia d’olio, a catena. È un meccanismo che si incontra col Nord attraverso il denaro. I partiti non governano questi fenomeni, anzi se ne fanno condizionare.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 20 dicembre 2014