Non serve uno Tsipras italiano, è sbagliato inseguire una storia diversa dalla propria: lo ha scritto un ventenne, Andreas Iacarella, nella lettera pubblicata su Left sabato scorso: una lettera molto bella. Se Vittorio Foa fosse ancora tra noi riconoscerebbe qualcosa di suo nell’invito a capire, a studiare, a riprendere tempo nei momenti della sconfitta, a studiare di nuovo la mossa del cavallo.

Non serve uno Tsipras italiano, è sbagliato inseguire una storia diversa dalla propria: lo ha scritto un ventenne, Andreas Iacarella, nella lettera pubblicata su Left sabato scorso: una lettera molto bella. Se Vittorio Foa fosse ancora tra noi riconoscerebbe qualcosa di suo nell’invito a capire, a studiare, a riprendere tempo nei momenti della sconfitta, a studiare di nuovo la mossa del cavallo.

Questa lezione l’aveva imparata quando, nell’Italia fascista, aveva condiviso con altri giovani il fastidio verso gli «innocui democratici brontoloni, superati dal tempo che cammina» (frase attribuita a Leone Ginzburg). Il tempo cammina ancora ed è giusto fastidio quello di un ventenne che non ne può più di prediche e di guazzabugli ideologici di una sinistra che macina solo parole.

No, Andreas, non da Tsipras ci verrà la salvezza. Chi ha tentato alle elezioni europee di far tornate al voto un po’ di elettorato aggrappandosi a quel nome ha dovuto imparare che per una vera alternativa di sinistra ci vorrà pazienza. Oggi Alexis Tsipras è al governo di un popolo intero e conduce una bella e sacrosanta battaglia. In Italia invece va avanti un’ennesima rivoluzione passiva sotto il segno degli interessi del capitalismo finanziario e di un ceto politico-affaristico profondamente corrotto, con un governo che accumula consensi stravolgendo la Costituzione e premiando gli evasori in misura direttamente proporzionale all’ammontare dell’evasione, mentre il mondo dei giovani, lavoratori e studenti, è unito solo dal disastro del lavoro e della cultura. E’ proprio a questo Paese corrotto e devastato dalla speculazione che intanto la storia presenta il suo conto.

Con quest’anno 2015 si conclude il nostro ’900: un secolo che sembrò breve a Eric Hobsbawn solo perché lo misurò con dati eterogenei – la cesura storica iniziale della Grande Guerra e la cesura cronologica finale del 2000. Ma è oggi che si conclude il ’900 col tornare davanti a noi di una crisi generale simile a quella che fu avviata proprio in Libia dalle imprese del colonialismo straccione e feroce dell’Italietta. E bisognerà fare attenzione alla deriva bellica che ci minaccia per il fascino che la parola “guerra” riscuote in molti ambienti italiani non solo di destra. Dovremmo pur sapere che i disastri dell’oggi sono nati dalla sciagurata dottrina americana della “crociata contro il terrore”.

Una nuova guerra nostrana in Libia farebbe il paio con quella di cui una Germania egemonica ha creato le premesse al confine orientale d’Europa. Bisognerà tener fermo il rifiuto costituzionale della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali. E intanto è sempre più urgente cambiare strada rispetto alla non-politica mediterranea ed europea di un Paese che è per vocazione storica e dato di natura il cuore europeo del Mediterraneo – un mare diventato da anni un grande cimitero.

Qui decine di migliaia di vittime senza nome e senza sepoltura sono state lasciate affogare dalla criminale indifferenza del resto d’Europa e da governi leghisti e forzitalioti e piddini, mentre una serie di norme raffazzonate trasformavano la disperazione di masse di profughi e di rifugiati in reato penale e coprivano l’Italia intera di carceri improprie, mentre vecchie e nuove mafie si arricchivano coi fondi europei per l’immigrazione. Oggi dalle sponde africane ancora una volta, come ai primordi dell’umanità, è in atto una migrazione collettiva che assume di giorno in giorno dimensioni imponenti. E se i mezzi navali avessero seguito le regole dell’Operazione Triton, già domenica scorsa quelle duemila persone tratte in salvo sarebbero morte. Partiamo da qui.