Alla kermesse del Pd sulla “scuola che cambia”, il presidente del Consiglio dipinge scenari suggestivi sull’istruzione del domani. Bacchettando gli insegnanti.

Di che cosa parliamo quando parliamo di scuola? Al convegno “La scuola che cambia, cambia l’Italia”, organizzato dal Pd a Roma per festeggiare il primo anno di governo, Matteo Renzi ha insistito sulla suggestione che la scuola di oggi disegna l’Italia fra trent’anni e ha rivenduto l’imminente decreto legge sulla scuola come una merce preziosa.

Nessuna rivelazione sui contenuti del testo. Tutti gli sforzi di Renzi si sono indirizzati nella riformulazione di alcune definizioni chiave del suo discorso, da “riformare” ad “ascoltare”, secondo la buona novella del rottamatore. Conseguentemente non ha speso una parola per giustificare il carattere di necessità e urgenza delle nuove norme sull’istruzione. Anzi, aggirando le critiche ricevute su quest’ultimo punto, ha rivelato di essere stato rimproverato per aver sottoposto le linee guida della “buona scuola” all’attenzione dell’opinione pubblica, prima ancora di legiferare.

Neanche un accenno alla freddezza della risposta al sondaggio governativo, specialmente da parte dei docenti. Renzi ha poi respinto le accuse di verticismo e chiusura alle critiche, impugnando l’argomento dell’importanza strategica della scuola, che non può essere riformata in seguito a un dibattito tra i soli addetti ai lavori. Però non ha mai ricordato la Legge d’iniziativa popolare “Per la buona scuola della Repubblica”, scritta da docenti, genitori e studenti, sottoscritta nel 2006 da 100.000 cittadini e da qualche mese riproposta in Parlamento da 33 deputati e senatori.

Ha detto e ribadito che la buona scuola c’è già, che i nostri studenti sono preparati, come testimonia il fenomeno della “fuga dei cervelli”, e che i docenti sono nella stragrande maggioranza validi. Eppure, ha aggiunto senza spiegazioni, bisogna cambiare, anzi rivoluzionare la scuola. Pur riconoscendo come giustificata la diffidenza dei docenti verso la politica, ha criticato duramente gli insegnanti che dicono davanti ai loro studenti di non fidarsi dello Stato.

Forse Renzi non sa che gli insegnanti della scuola pubblica sentono di rappresentare lo Stato e si sentono traditi dai politici che hanno reso mostruoso lo Stato, come accade, ad esempio, quando il Miur impone alle scuole più virtuose di cancellare i crediti che vantano verso l’amministrazione centrale. Nonostante la premessa sulla buona qualità generale del corpo insegnanti della scuola italiana, Renzi non se l’è sentita di spiegare la ragione per la quale intende introdurre la valutazione del merito tra i docenti. Tuttavia si può dedurre dall’ammissione, fatta poco prima di affrontare questo tema, che non ci sono soldi.

Ha pure confidato che non sa neppure lontanamente come sarà valutato il merito, convinto che comunque, per prima cosa, bisogna cambiare. Il senso di questa fuga in avanti è forse nelle parole con cui ha spiegato la frase di Mahler: «La tradizione è la salvaguardia del fuoco, non adorazione della cenere». Prima ha osservato che la tradizione è sempre stata interpretata come ricordo del passato, poi ha aggiunto che «l’Italia non è l’insieme di storie del passato. Certo, anche questo è identità. L’Italia è un paese in cui chi vuole provarci ci può provare, è un insieme di opportunità, non di ricordi». E i precari che contestavano hanno pensato di trovarsi alla presentazione della “Ruota della fortuna”.