Alla base del razzismo c’è il mancato riconoscimento del diverso come essere umano. Parla il difensore della Juventus e della Francia campione del mondo.

«Le persone sono razziste, è così e non cambierà». Lilian Thuram ha nove anni quando mamma Marianne gli svela la sua percezione delle cose. È il 1981, e il piccolo Lilian ha da poco raggiunto la madre a Parigi, emigrata l’anno prima da Pointe-à-Pitre, Guadalupa. Vivono a La Fougeres, quartiere di Avon, alla periferia della capitale, non proprio un’immagine da cartolina. Ma Lilian è felice, studia, gioca a calcio per strada con gli altri bambini, e poco importa se sono bianchi o neri, se sono nati in Francia o sono figli d’immigrati. Un giorno, a scuola, lo chiamano “Noiraude”, come la mucca nera di un cartone animato in voga all’epoca. Noiraude è stupida, e l’etichetta non gli piace, così di ritorno a casa chiede spiegazioni alla mamma, che lo invita a farsene una ragione e ad accettare l’immutabilità della situazione. Intanto Lilian cresce, diventa uomo e calciatore di fama, insuperabile difensore che raggiunge nel 2008 il record di presenze con la Nazionale francese (142, tuttora imbattuto). Dodici gol in carriera, ma due di questi valgono per cento: li fa a Parigi con la maglia dei Bleus, nella semifinale dei Mondiali ’98. Quella partita la stava vincendo la Croazia, poi ci ha pensato lui, spianando la strada alla Francia verso la conquista del titolo. Il secondo gol è una perla di volontà e precisione, e dopo il tiro non strepita: s’inginocchia, porta la mano sinistra al volto, l’indice sul naso come se stesse pensando. In quell’esultanza senza fronzoli c’è tutta l’essenza del personaggio, che non ha mai smesso di riflettere, nemmeno dopo aver appeso le scarpe al chiodo sette anni fa, per colpa di un cuore un po’ difettoso. Ambasciatore Unicef dal 2010, porta avanti con la Fondazione Lilian Thuram un’intelligente battaglia contro i pregiudizi culturali e storici che opprimono le popolazioni di pelle nera. Battaglia combattuta anche con i libri: due, finora, quelli scritti dall’ex difensore, Le mie stelle nere e Per l’uguaglianza (Add editore).

Thuram, nel suo ultimo libro Per l’uguaglianza, si interroga sul perché gli uomini insistano a pensare all’esistenza di culture superiori ad altre.

Il concetto di uguaglianza è fondamentale, la sua comprensione viene prima di ogni altra cosa, prima della lotta al razzismo, al sessismo, all’omofobia. È la prima cosa che dobbiamo difendere e verso cui dobbiamo tendere, sapendo però che non è affatto scontata. Il fatto che si ragioni ancora a compartimenti stagni – “bianchi e neri”, “uomini e donne”, “eterosessuali e omosessuali” – fa capire come l’uguaglianza rappresenti una novità che deve essere ancora assimilata dalla società. In fondo l’apartheid in Sudafrica è stata sconfitta appena una ventina d’anni fa, le lotte razziali negli Stati Uniti erano vive negli anni 60, non in tutto il mondo le donne hanno il diritto di voto e la più antica forma di gerarchia, quella che prevede la superiorità dell’uomo sulla donna, è ancora piuttosto diffusa.

Lei è “diventato” nero a 9 anni, quando è andato a vivere a Parigi. Com’è cambiata la sua vita?

Non tanto, a dire il vero. I soldi erano pochi, ma ero sereno, andavo a scuola a piedi ed ero tornato a vivere con mia madre dopo la sua partenza da Guadalupe. Giocavo a calcio per strada con gli altri bambini: portoghesi, pakistani, algerini, zairesi, c’era di tutto, le origini non importavano. Poi a scuola hanno cominciato a chiamarmi “Noiraude” e ho scoperto di essere nero. Il razzismo comincia così, quando qualcuno ti dice “tu sei nero”: è l’avanguardia di un gruppo di persone che pensano di essere superiori alle altre.

Sua madre le suggerì di rassegnarsi.

Mi spingeva a restare una vittima, ad accettare questa situazione come semplice destino. Ho preferito farmi delle domande, e ho capito che il razzismo è una costruzione intellettuale che può essere abbattuta.

Poi è arrivato il calcio.

Fondamentale per la mia crescita, mi ha permesso di farmi degli amici e di capire l’importanza di appartenere a un gruppo in modo sano. Grazie al calcio ho viaggiato, e ho capito cosa conta davvero nella vita: l’etica del lavoro, l’umiltà, la capacità di ascoltare e di imparare dagli altri. Se si vuole raggiungere un obiettivo bisogna imparare a relazionarsi con le altre persone, e il colore della pelle non ha più alcun valore.

Come nella Francia campione del mondo nel ’98, di cui lei era titolare: c’erano Zidane che ha origini berbere, Djorkaeff e Boghossian armene, Lizarazu basche, Desailly è nato in Ghana, Vieira in Senegal, Karembeu in Nuova Caledonia.

Quella vittoria ha rappresentato una fase in cui la società francese ha dovuto riflettere su se stessa. Era l’affermazione di un cambiamento sociale di cui i francesi dovevano prendere coscienza. La storia si evolve, gli uomini si muovono: per la Francia vincere i Mondiali ha significato accettare definitivamente l’idea della multiculturalità e dei tanti colori.

Un concetto che in Italia non vuole passare, se pensiamo alla gaffe fatta dal presidente della Federcalcio Tavecchio sulle banane mangiate dal simbolico giocatore di fantasia nero Optì Pobà prima di arrivare in Europa.

Non era una gaffe, ha detto semplicemente quello che pensava. È la verità che viene a galla, e le società che ne hanno appoggiato la candidatura probabilmente sono dello stesso avviso. Purtroppo l’episodio rende l’idea dell’aria che si respira in Italia.

Certi politici non sono da meno: il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, ha proposto su twitter di lasciare a largo gli immigrati che cercano di sbarcare in Italia.

Alla base del razzismo c’è il mancato riconoscimento del diverso come essere umano. Salvini cerca consensi facendo passare il concetto che gli immigrati non sono uomini, non hanno i nostri stessi diritti e possono anche morire senza che cambi qualcosa. È un pensiero estremamente pericoloso, fonte d’ispirazione di tutte le forme di schiavitù e genocidio: ripetendolo spesso la gente finisce per farlo suo. Agli elettori di Salvini vorrei ricordare che gli immigrati sono anzitutto essere umani, proprio come loro: sarebbero davvero disposti a lasciarli morire in mezzo al mare?

Pensa che l’Italia sia un Paese razzista?

Il razzismo è dappertutto, in Francia come in Italia. Le gerarchie basate sul colore della pelle esistono da sempre, sono insediate nella società e negarlo è da ipocriti. Il razzismo ha origini antiche, radicate generazione dopo generazione: per sconfiggerlo bisogna parlarne, non nasconderlo. Serve un nuovo Umanesimo, tornare a riconoscere l’essere umano come centro dell’universo, affermandone definitivamente la dignità.

Negli stadi italiani la situazione non è migliore: già dieci anni fa l’ivoriano Zoro minacciò di abbandonare il campo durante un Messina-Inter a causa dei cori razzisti, e per lo stesso motivo il ghanese Boateng ha fatto interrompere un’amichevole del Milan. Ha mai pensato di fare altrettanto in situazioni analoghe?

Mai. Penso anzi che a uscire dal campo dovrebbero essere i compagni di squadra del giocatore coinvolto: sono loro che devono aiutare chi è vittima di cori razzisti, non farlo sarebbe una sorta di omissione di soccorso. Quando un’intera squadra uscirà dal terreno di gioco avremo fatto un bel passo avanti nella lotta al razzismo.

Dopo i recenti attentati terroristici in Francia e Danimarca, nell’immaginario collettivo il diverso forse fa ancora più paura.

Violenza e paura sono ormai concetti politici: riconoscendole come tali rischiamo di cadere nella trappola, e non solo in Francia. La prima reazione dev’essere quella di capire il grado di difficoltà di certe persone nello sviluppo della libertà di pensiero: è da qui che bisogna partire, dal comprendere il tipo di educazione ricevuta e il pregresso personale. Poco conta che gli attentatori di Parigi fossero francesi e musulmani: l’estremismo non c’entra, la chiave è l’uomo. D’altronde quanti musulmani sono morti per mano dei jihadisti?

Cosa pensa della satira di Charlie Hebdo?

Può dar fastidio, ma vivere in un Paese in cui è possibile fare satira sulle religioni significa vivere in un Paese libero.

Il discorso cambia quando c’è di mezzo il controverso comico (per alcune battute antisemite), Dieudonné.

Pessima gestione del personaggio: più l’opinione pubblica lo attacca, più ne fa una vittima, rendendolo così ancora più popolare.

Cosa direbbe a Marine Le Pen che invoca la pena di morte per i terroristi?

Gli estremisti sono facilissimi da riconoscere perché cadono sempre nel tranello della violenza. Dire sì alla pena di morte significa tornare indietro di secoli: il risultato sarebbe una società involuta in cui la regola dominante è quella della brutalità. La violenza genera violenza, e i violenti finiscono per uccidersi. Ricordatevelo, Salvini e Le Pen: la violenza porta solo morte.