La riduzione degli orari non è dunque una scelta, o un’utopia, è una constatazione, e non si colloca nel futuro, ma nel presente.

Due blockbuster di fantascienza suggeriscono quale sia la ricchezza più preziosa e “democratica” che esista sulla terra, dipingendo futuri distopici in cui capitalisti terrestri (in In time di Andrew Niccol) e colonialisti interplanetari (i Jupiter di Lana e Andy Wochowski), raffinati e cattivissimi, “rubano il tempo” alle persone per diventare immortali. Il tempo, ecco la nostra ricchezza, ed ecco il tema ignorato: c’è qualcuno che sta rubando, anzi comprando, il nostro tempo. Non in un film, non in un futuro, ma qui, ora.

Noi, complici, ci facciamo troppo raramente la domanda giusta, che è diventata un tabù: valgono di più i soldi o il tempo di vita? Per questo siamo sempre lì, al pane e alle rose, e questo pezzo può aprirsi con l’intramontabile slogan nato dalle parole di Rose Schneiderman, sindacalista, femminista e socialista.

«Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere, il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte ». «L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose». Era il 1911. Si parlava delle dimensioni non monetizzabili della vita. Un secolo dopo, c’è molto più pane di allora, ma troppi si sono scordati il profumo delle rose, tanto da non avvertirne più nemmeno il bisogno.

Per l’homo economicus il tempo è denaro, merce sul mercato del lavoro e fattore di produzione di ricchezza; e il ruolo di produttore si alterna poi a quello di consumatore, a cui votare il residuo tempo “libero”. E così, durante questi decenni di ubriacatura liberista, il tema della riduzione degli orari di lavoro pian piano scompare dai programmi dei partiti e anche dei sindacati, che pur lo dovrebbero conservare nel Dna, perché il Primo maggio nasce proprio come giornata di lotta per le otto ore di fatica quotidiana.

Ecco il punto. Esiste certo un problema di reddito per milioni di cittadini, ma altri milioni potrebbero ben identificarsi nella categoria sociologica dei money-rich, time-poor, di chi ha disponibilità di denaro che eccede i bisogni fondamentali, ma soffre una mancanza di tempo per coltivare relazioni e attività extra-lavorative. La sfida che abbiamo davanti è dunque quella di rispondere sia alla povertà di reddito sia alla povertà di tempo, e – sorpresa! – si tratta come sempre di redistribuire.

Non è certo per caso che, in Spagna, Podemos faccia delle 35 ore settimanali un asse portante del suo programma, che in Germania numerose personalità sottoscrivano un appello per le 30 ore, e che in Inghilterra la New Economic Foundation lanci addirittura la provocazione delle 21 ore. Si palesa la necessità di affrontare una dinamica strutturale: gli orari di lavoro medi sono già in calo da decenni, a ritmi diversi, in tutti i paesi avanzati (tutti!).

La riduzione degli orari non è dunque una scelta, o un’utopia, è una constatazione, e non si colloca nel futuro, ma nel presente. La scelta da assumere è dunque un’altra: governare questa tendenza, trainata dall’evoluzione tecnologica, o continuare a lasciarla all’arbitrio delle singole imprese, allargando così una forbice che la “media del pollo” nasconde?

Mentre molti non lavorano (disoccupati, scoraggiati, neet) o lavorano meno di quanto vorrebbero (contratti a termine e part time involontari, ormai i 2/3 del totale), altri devono lavorare sempre di più (orari contrattuali in aumento, taglio di riposi e pause, partite Iva a cottimo, slittamento delle pensioni). È noto come in Fiat-Fca, per fare un esempio, la cassa integrazione conviva con lo straordinario obbligatorio triplicato (!), ma anche altre categorie pubbliche e private lavorano di più che in passato, dai ferrovieri agli addetti al commercio, soprattuto se neoassunti. Spesso aumenta anche l’intensità della prestazione e la flessibilità dei turni: anche i nuovi riti del consumo domenicale peggiorano la vita sia dei lavoratori dipendenti sia dei piccoli commercianti, che si vedono costretti a lavorare un giorno in più senza potersi permettere di assumere qualcuno che lo faccia per loro, a solo vantaggio degli azionisti delle grandi catene.

L’ARTICOLO INTEGRALE SU LEFT IN EDICOLA DA SABATO 14 MARZO