La proposta di Naomi Klein, giornalista e ispiratrice del movimento No global: non sono per la decrescita, dà l’impressione di regresso. Ma crescita non è per forza progresso.

La fama la precede. Da quel No Logo, scritto ormai quindici anni fa, Naomi Klein è, per tutti, l’ispiratrice del movimento No global. Così il suo passaggio in Italia per la presentazione del nuovo lavoro This Change Everything (Una rivoluzione ci salverà, Rizzoli), è l’occasione per tornare sul ritornello che vorrebbe i movimenti capaci di dire solo «no» e per spiegare come «l’emergenza climatica sia, paradossalmente, il miglior argomento che i movimenti abbiano mai avuto per contrastare la crisi».

Perché il surriscaldamento globale, per Klein, è la molla che dovrebbe fare imboccare una via alternativa: «Prendere sul serio il climate change » dice a Left, «vuol dire anche costruire nuove opportunità per uscire dalla crisi. L’Europa ce la può fare puntando al 100 per cento di energie rinnovabili, potenziando il trasporto pubblico e rendendolo gratuito». Certo, bisognerebbe prima rinunciare all’austerity e andare a prendere le risorse lì dove ci sono («Potremmo recuperare miliardi di dollari tassando il lusso e le royalties che estraggono i combustibili fossili, facendo pagare chi è responsabile delle emissioni di gas serra»), ma a quel punto avremmo anche archiviato quella che Klein riconosce come una «mentalità razzista»: «Se vivessimo in una società in cui a tutte le vite, non importa di quale colore, si riconoscesse eguale valore», nota la giornalista canadese, «avremmo agito per contrastare il cambiamento climatico da molto tempo».

Andiamo al cuore del problema. Lei propone di assumere il surriscaldamento del pianeta come paradigma del mondo contemporaneo. Perché ritiene che la questione ambientale non sia al centro dell’agenda dei governi impegnati a gestire la crisi?

È semplice: perché se volessimo prendere sul serio la crisi climatica avremmo bisogno di ingenti investimenti pubblici, di ridurre almeno del 10 per cento le nostre emissioni, di ripensare le nostre infrastrutture energetiche ed il sistema dei trasporti, di lasciare i combustibili fossili sottoterra, e di ridisegnare completamente le nostre città. Sono tutte cose incompatibili con la ricetta dell’austerity. Per questo, credo che l’emergenza climatica sia, paradossalmente, il miglior argomento che i movimenti abbiano mai avuto per contrastare la crisi.

 

 

La risposta al surriscaldamento globale può essere una leva per una “rivoluzione”?

Se vivessimo in una società in cui a tutte le vite, non importa di quale colore, si riconoscesse eguale valore, avremmo agito per contrastare il cambiamento climatico da molto tempo. Ma c’è una crudelissima ironia in questa crisi globale: i maggiori responsabili degli impatti negativi sul clima sono i più privilegiati, mentre i meno colpevoli della crisi climatica sono quelli più duramente colpiti. Per esempio, è un’enorme ingiustizia il fatto che l’Africa subsahariana, una tra le zone del mondo con le più basse emissioni di gas serra, subisca il maggiore aumento della temperatura, con l’impatto più dannoso.

I Paesi ricchi non agiscono perché altri pagano le conseguenze della loro condotta?

Sì. Se le parti del mondo che hanno più responsabilità fossero state anche le più vulnerabili, allora avremmo agito concretamente per salvare noi stessi. E invece, la nostra risposta ai cambiamenti climatici – ed è spaventoso – è passata attraverso il filtro del razzismo. Questa crisi è stata sottovalutata perché tuttora la nostra società discrimina attivamente le vite di popoli di colore, perché crediamo che noi saremo salvi, alla fine. Ne siamo convinti.