Livornese di pancia. Per qualcuno è l’erede del grande Piero Ciampi. Bobo Rondelli torna con il suo decimo album, e narra con amara lucidità di vita e di poesia.

«Affari miei». Bobo Rondelli ci lapida così alla prima domanda, quando gli chiediamo se è soddisfatto del suo ultimo album. Volevamo rompere il ghiaccio, ma con un livornese non si può perché non ce n’è (di ghiaccio). Poche parole dopo, infatti, si chiacchiera come tra vecchi amici. Rondelli è in tour per il suo nuovo album Come i Carnevali. Dieci tracce di vita quotidiana e poesia, narrate con amara lucidità e realizzate con la collaborazione di Francesco Bianconi dei Baustelle e dei “soliti” amici e musicisti: Fabio Marchiori e Simone Padovani. Prima il disco e poi il tour. Un percorso lineare, che però a Rondelli non va giù: «Quando finisci un disco è come se avessi partorito, c’hai le palle piene. Vorresti fermarti e invece devi andare in giro a suonarlo. Mi piacerebbe di più se si facessero i dischi dopo aver fatto il tour, per far scegliere agli ascoltatori le canzoni da mettere nel disco. Perché, vedi, è difficile capire da te cosa c’è di bello o meno in quello che hai fatto. Quando scrivi una canzone, poi un po’ perdi l’entusiasmo di quando l’hai appena partorito. Ti sembra bella nei primi momenti poi, dopo, ti perdi un po’, non sai se scegli bene».

Come scrivi le tue canzoni, come le pensi?

Quando sono in osteria a bere, o in bagno. Ti viene un’idea per raccontare una storia e la storia prende la forma di una canzone. Ma parto sempre da una storia, da qualcosa di preciso da dire. Sono come dei piccoli film, è questo il mio modo di scrivere, tendo a non scrivere frasi poetiche un po’ pennellate, è un modo mio forse un po’ naif… boh.

Tante storie e tanti omaggi. Visconti, Ugo Tognazzi, Cosini di Svevo. In cima all’album quella di Emanuel Carnevali, poeta toscano partito alla volta degli Stati Uniti tanto tempo fa e sconosciuto ai più dalle nostre parti.

L’ho incontrato per caso, ho letto le sue poesie e mi è venuta la voglia di diffondere il suo genio anche agli altri, tramite la canzonetta. Sono contento di essere il tramite di un genio. Perché la canzone è anche questo. Mi piace che la canzone abbia questa funzione di distribuzione delle belle cose, della memoria.

Eroi della vita e nella poesia. Ma, davvero c’è bisogno di eroi?

Se non se lo ricorda nessuno, l’eroe è allo stesso tempo un antieroe. L’eroe è un antieroe, non cerca la gloria per sé. Lo è suo malgrado. Come il “Maestro goldszmit”, a cui dedico l’ultima canzone del disco, che si sacrificò accompagnando i bambini della sua scuola nei campi di sterminio, pur potendo salvarsi. Ricordare un uomo così l’ho sentito come un dovere e mi piace che qualcuno possa conoscere queste grandi storie.

Tra una storia e un’altra, se c’è un filo rosso è la tua Livorno.

Pensa che non ho origini livornesi, ma sono cresciuto qui e cerco di cogliere gli aspetti belli di questa città. Se vogliamo è stata una città multietnica, prendi le “leggi livornine” che hanno ispirato gli Stati Uniti d’America: gli uomini son tutti uguali, ognuno può professare la sua religione. Questo stare insieme porta la gente a essere più libertaria. La gente tende a essere meno… borghese, ecco. C’è una forza molto popolare a Livorno. E anche una sorta di modo di essere un po’ nomade, quello di voler vivere alla giornata. Una sorta di desiderio di voler essere ignoranti e allo stesso tempo sentirsi meglio degli altri.

Uno spaccone, insomma…

Spaccone no. È coraggio. Come scrivo in “Carnevali”: «Ma tu cosa vuoi sapere anima vile, hai scelto le tasche sicure per i sogni facili». A volte si può essere presi per spacconi a essere menefreghisti sul domani e a non accumulare ricchezze sempre e comunque. Viene preso per “spaccone” chi, quando non ce la fa ad arrivare a fine mese, sidice: Non importa, vado al bar e offro io.

Molto “ciampiano” come atteggiamento, quanto ti ha influenzato Piero Ciampi?

Alla fine non moltissimo, credo. Il suo era un atteggiamento più profondamente livornese, di sfida nei confronti degli altri, della vita, delle donne. Io forse son più vicino a figure più come il “mascalzone” del cinema italiano.

Torniamo alla musica. Per molti anni hai parlato il linguaggio del punk e del rock. Chi se la scorda “Ho picchiato la testa” con gli Ottavo padiglione… parentesi chiusa?

No no, un pochino è anche in questo disco. Quando nel disco scherzando biascico «oh facciamo un pezzo alla Strokes» sono un personaggio livornese dei bassifondi a cui piace copiare gli Strokes (ride). Che poi non è che siano proprio l’icona del punk… ma in quel brano c’è quell’anima punk. Credo che riprenderò col punk. È bello quando sei vecchio e la gente ti dice a una certa ora ti dice: vai a letto, nonno! E tu invece parti conun pezzo tutto punk.

Aspetteremo la fine del concerto, allora.

A fine concerto faccio sempre i vecchi brani. E, ti dirò, ultimamente cerco la musica che sentivo da ragazzo: David Bowie, i Rolling Stones, il punk deiDamned e degli Undertones.

Qualcosa di nuovo?

Poco. Ho ascoltato gli Arcade Fire e mi son piaciuti molto.

Perché è più comodo ascoltare la roba del passato o non trovi cose interessanti?

Quando sei ragazzo conosci meno la musica e ti sembra più fresca. Adesso senti una canzone e spesso ti sembra di averla già sentita, nella musica classica per esempio. Con più conoscenza della musica si tende a illudersi di meno. Questo è un fatto. E poi forse oggi c’è meno fermento giovanile, la musica è molto in mano al business, ai discografici o a quello che che il potere vuole. Tutto rientra nel “spendi, spandi, consuma, crepa”. E diminuisce la musica che parte dalle cantine. Forse il rap, ma a me m’annoia un po… sarà che son vecchio. Preferisco la rabbia, anche folle, dei Sex Pistols.

Ti piace sentirti folle?

Mi sento un demente, mi piace l’imbecillità, la sciatteria. L’ultima mia frasetta: Per non cadere in un “bar atro”, io salii su una “L” monopattino, e arrivai a un “bar altro”. È un giochetto alla Petrolini, è una visione tra una lettera e l’oggetto che potrebbe diventare.