C’è chi fa dossier sulle infiltrazioni criminali, chi protegge i testimoni di giustizia e chi lavora sul consumo critico. Con budget risicati e senza reticenze. Viaggio nell’Italia dell’altra antimafia.

Si definiscono solo dei «ragazzi che vogliono tenere pulito il loro piccolo angolo di mondo». Un po’ come la raccolta differenziata: se la facessero tutti, non ci sarebbe bisogno di grandi politiche nazionali, né di grosse distribuzioni di fondi. Sono i piccoli gruppi locali che in tutta Italia combattono la mafia. La conoscono bene e, soprattutto, lei conosce loro. Rischiano, ma non potrebbero fare altrimenti. E danno fastidio.

Dalla ligure Casa della Legalità alla Rete Antimafia Emilia-Romagna, passando per gli studenti-reporter di Cortocircuito (Reggio Emilia), da Addiopizzo in Sicilia per arrivare a Brescia con Rete Antimafia, lo Stivale è puntellato da una rete di buone pratiche, parallela alle associazioni maggiori e alternativa all’antimafia istituzionalizzata, fatta di grandi proclami, profonda indignazione e tanti, tanti, tanti fondi.

«Siamo consapevoli che per alcuni di noi questo ha implicato un prezzo da pagare. Passando anche per il tentativo d’isolamento da parte di quei professionisti dell’antimafia per i quali il contrasto alla criminalità potrebbe fermarsi all’utilizzo di fondi pubblici distribuiti a iosa», raccontano Gaetano Alessi, Massimo Manzoli e Davide Vittori. Hanno pubblicato Emilia Romagna cose nostre, un dossier sulle operazioni di mafia e antimafia nel territorio emiliano e soprattutto romagnolo nell’ultimo biennio. Assieme allo Zuccherificio di Ravenna, il Gap (Gruppo Antimafia Pio La Torre) di Rimini, 100% in Movimento di Piacenza (costola della Rete Cento Passi generata da Peppino Impastato), e Partecipazione di Reggio Emilia, la No name e DieciVenticinque di Bologna forma la Rete antimafia emiliano-romagnola. Un centinaio di persone a cui si aggiungono tanti volontari: «Raccogliamo informazioni e a fine anno ci sediamo attorno a un tavolo e mettiamo insieme il lavoro». Così creano un dossier i cui contenuti vengono ripresi da Libera nel report regionale annuale, dai giornali per i loro pezzi e trovano riscontro nelle inchieste giudiziarie.

L’unica a non dargli spazio è la politica. Sarà un caso? Alcune eccezioni ci sono: «Come Valentina Morigi, assessore di Sel nel comune di Ravenna per esempio, o Enrico Bini, sindaco di Castelnovo ne’ Monti (Re), ex presidente della Camera di commercio «a cui non rinnovarono il mandato perché incrociava i dati della prefettura e della Camera di commercio con quelli dei luoghi di provenienza delle ditte in odor di mafia, e rifiutava la maggior parte delle aziende». Un pazzo. Da cinque anni a Ravenna si tiene il loro festival di in- formazione, il Grido della farfalla, dalla durata di tre giorni, con annesso Premio di Giornalismo d’inchiesta Gruppo dello Zuccherificio. Tutto questo, gratuitamente: «Non prendiamo un centesimo da nessuno: come potremmo garantire imparzialità se venissimo sostenuti dai finanziamenti pubblici?».

Libera, grande assente

Balza all’occhio però una grande assente: come mai l’associazione Libera non fa parte della vostra Rete? «Con Libera è un amore tradito», racconta Alessi, sindacalista e giornalista fra i più attivi nella lotta alla mafia, che ha partecipato alla fondazione dell’associazione nel lontano ’95. «Avevamo pensato altro vent’anni fa. Troppi legami con la politica locale. Troppo silenzio. Se don Ciotti deve venire di persona a sostenere il bravo sindaco di San Lazzaro che si sta battendo contro i cementificatori, è un messaggio più all’interno che all’esterno: svegliatevi, slegatevi da certi rapporti e tornate a essere “Libera”». D’accordo con lui Rossella Noviello, di 100% Piacenza: «Servono nomi e cognomi se si vuole fare antimafia.

La maniera soft, quella che non disturba, non va bene perché per l’appunto, non disturba nessuno. Indigna, commuove, ma non denuncia». Si sentono isolati, raccontano, «come se a fare antimafia fosse e potesse essere solo Libera». Non se la prendono con il fondatore, ma con alcune dinamiche territoriali escludenti, che non sostengono il loro lavoro, dicono. Se così fosse, sarebbe un peccato. Anzi, un pericolo. Gli è stato dato dei “mitomani” e dei “fissati” da politici e signori in doppio petto di tutto il Belpaese. Spesso da quegli stessi politici “distratti” che poi s’indignano se li si taccia di non aver fissato abbastanza lo sguardo su quegli angoli sempre più vasti in cui si accomodano le cosche

Conoscono il territorio e monitorano le intimidazioni: 351 nel 2013, una al giorno, con un aumento del 66% rispetto al 2010, quando l’associazione Avviso Pubblico ha iniziato a monitorare il fenomeno. Anche questa nata su base locale e volontaria, ma fatta di amministratori pubblici (attualmente sono 270 gli associati) che sorvegliano lo stato di salute della pubblica amministrazione e del territorio rispetto alle infiltrazioni criminali. Se non ci avessero pensato loro, non avremmo dati reali.

E sempre a proposito di dati, la onlus Casa della Legalità è un archivio imprescindibile anche per gli inquirenti: dal 2005 Christian Abbondanza raccoglie meticolosamente non solo tutte le ordinanze, ma produce materiale sulla base del quale vengono aperte o integrate le indagini della Dia. Un gruppo di tre persone con avamposti collegati in tutta Italia: fotografano cantieri, mappano legami, decriptano bilanci in collaborazione costante con procure e prefetture, carabinieri e nuclei investigativi: «Ogni tanto è capitato anche che ci trovassimo nascosti a fare gli stessi appostamenti», scherza. «Prima i Fotia, i Mamone, i Gullace, e tutte queste belle famiglie vivevano tranquille». Poi loro hanno iniziato a documentare spostamenti, possedimenti e movimenti, portato tutto ai magistrati che adottano le informative e poi procedono. E la pacchia è finita. Un esempio? «La procedura di scioglimento del comune di Ventimiglia, è scritto nero su bianco, parte da un esposto di Christian Abbondanza». Questo, sulla base di tre principi di garanzia:

Operiamo guardando a 360 gradi, senza alcuna distinzione o strabismo; non consideriamo nessuno come intoccabile.

La legalità e la giustizia, i diritti e la dignità non hanno colore politico», perché il problema lo trovi a tutti i livelli della società. Devi conoscere non bene, ma benissimo il territorio: «Se io porto documenti di questo calibro a un ispettore o a un carabiniere, devo essere assolutamente certo della sua onestà». Abbondanza sottolinea la sua differenza di approccio rispetto all’associazione guidata da Luigi Ciotti: «Alcune realtà di Libera funzionano. Il problema è generale: è la quiescenza verso la contiguità con le pubbliche amministrazioni. Camminiamo su binari diversi. Dopodiché, se non vogliono fare i nomi, va benissimo: collaboriamo. Coordiniamoci. Non esiste un solo modo per fare antimafia, a quella parte penso io».

Nel frattempo Christian e i suoi vanno avanti da soli, perché con i politici non va meglio: «La giunta Vincenzi, quella degli appalti ai Mamone guarda caso, a noi non ci sopportava». Anche vincere un bando per la Casa della legalità, che opera senza risorse pubbliche, è difficile: «Ma le verifiche hanno un prezzo. Una visura camerale costa 11 euro, quella catastale dipende: on line costa un capitale. Gli atti dei passaggi di proprietà, idem». I risultati arrivano comunque: «Tre anni di lavoro con la Dia e 90 edifici confiscati ai Canfarotta solo nel centro storico di Genova. Le persone ci conoscono, hanno fiducia in noi e questo ci rende più facile scovare personaggi e legami illegali. Pensi che ce ne abbiano assegnato uno per la sede?». Dal Comune nessuna risposta.

«Dicono che facciamo legalità irresponsabile»

Sarebbe? «Quella che denuncia con foto, nomi, telefoni e indirizzi». E questo a qualcuno non piace, perché nell’Italia di Sciascia «sono pacchetti di voti». Abbondanza ospita anche testimoni di giustizia: «Abbiamo bisogno di uno spazio protetto per casi come questi, visto che la legge ha un buco nella prima fase, che può durare anche un anno. Che fanno, tornano a casa la sera?». Avevano proposto una sorta di “ostello della legalità” per autofinanziarsi, perché «dobbiamo fare in modo che gli spazi che ci vengono assegnati – lo sportello di denuncia, la sede, l’appartamento protetto – non gravino sulle casse comunali, rispettando lo spirito della legge Rognoni-La Torre sui beni confiscati.

Perché sia un riscatto vero e proprio, devi fare in modo che l’attività recuperata cammini con le proprie gambe. Se ha bisogno di sovvenzioni pubbliche, hai creato clientelismo. Chiaramente, se questo progetto passa e noi dimostriamo che è possibile gestire i beni confiscati a costo zero, diventa difficile motivare le centinaia di migliaia di euro stanziati dal governo per supportare la gestione dei beni confiscati». Antimafia è anche creare sistemi economici alternativi: «La confisca non deve diventare un costo sociale, ma un ritorno di utilità sociale», non solo attività dimostrativa. A questo scopo nasce Addiopizzo, una mattina del 29 giugno del 2004, quando Palermo si sveglia ricoperta di volantini listati a lutto con la frase che diventerà una vera e propria mission:

“Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”

Il motivo? «Non potevamo non farlo». Da allora monitorano negozi e imprese che si rifiutano di pagare il pizzo, i consumatori che li sostengono, le scuole che fanno informazione antiracket. Hanno creato un marchio certificato che distingue chi è vittima di estorsione da chi si rifiuta, perché come sa chiunque combatta sul territorio, non si può restare a metà del guado quando si affronta la mafia. Si sono perfino dotati della “Addiopizzocard”: «Utilizzandola presso gli esercizi commerciali convenzionati, ogni cittadino- consumatore potrà beneficiare di uno sconto etico che gli operatori economici verseranno direttamente su un fondo, comune e trasparente, destinato a finanziare un progetto di riqualificazione della città di Palermo».

Al nord non sono da meno. A Brescia, provincia lombarda col tasso d’infiltrazione mafiosa più alto dopo Milano, una trentina di ragazzi si è accorta che «non ci eravamo resi conto di quello che ci stesse succedendo intorno: estorsioni, minacce, droghe, pistole puntate alla tempia. Tutto in locali che noi frequentavamo», racconta il referente di Rete Antimafia di Brescia, Arthur Cristiano. E così, seguendo processi e udienze, dal 2010 mettono in piedi una rete di persone con «l’idea di provare a essere noi a raccontare» senza aspettare che lo facciano gli altri. Per sensibilizzare e più concretamente «offrire sostegno ai testimoni di giustizia», chiave di rottura di un sistema. Oltre a iniziative nelle scuole e nelle università, la mafia e soprattutto la ‘ndrangheta, a Brescia la studiano: Psicologia della mafia.

Grazie a un professore della Cattolica, Antonino Giorgi, per capire come agiscono, come pensano, come scelgono. Si armano di sapere per affrontarli, insomma. Loro la ‘ndrangheta la vogliono debellare entrandoci dentro. Come un vaccino. Tra le loro attività, un progetto per aiutare le vittime di estorsioni e minacce: «Stiamo ricevendo valanghe di richieste di aiuto da parte di persone che, sfiduciate dalle istituzioni, non sanno come comportarsi quando si trovano di fronte a esponenti di qualche clan». Il punto è che «chi si trova in quelle situazioni viene isolato completamente». Nel silenzio delle celebrazioni istituzionali.