Molti quotidiani internazionali dedicano ormai uno spazio fisso a queste nuove forme di inchiesta e reportage. Ma in Italia il fenomeno stenta a decollare.

Dici documentario e pensi a polverose pellicole in un cassetto o nella migliore delle ipotesi a stupende produzioni, buone una volta l’anno per quel festival o quella presentazione, e poco altro ancora. Sarà perché l’Italia non ha una vera e propria cultura del documentario, ma questo tipo di produzioni è stata finora riservata ad una sparuta pattuglia di appassionati.

Nell’era del 2.0 il documentario diventa web-doc e rappresenta l’apoteosi della convergenza digitale. Al video si aggregano tutti i contenuti digitali disponibili: testi, immagini, infografiche, ebook, tweet e soprattutto spazi interattivi per l’utente. Ed è proprio questo l’aspetto più innovativo, la lettura non segue percorsi lineari, ma il personalissimo percorso dell’internauta, che sceglie quali parti dell’inchiesta approfondire, o quali canali privilegiare. Insomma una vera e propria rivoluzione.

Molti quotidiani internazionali dedicano ormai uno spazio fisso a queste nuove forme di inchiesta e reportage. Special reports del Washington Post, webdocumentaires di Le Monde, Data blog di The Guardian, especiales di El Paìs, webdocus di Le Soir sono solo alcuni esempi di sezioni create appositamente per i web-documentari. E mentre in Francia dedicano festival al web doc in Italia timidi tentativi sono stati fatti solo da Stampa e Corriere della Sera.

Per il resto le produzioni sporadiche seppur meritevoli dimostrano che il circuito economico è ancora troppo legato alle logiche del documentario classico, che lascia poco spazio alla sperimentazione di nuovi canali.

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