Le multinazionali per sponsorizzare il biologico il made in Italy di Mc Donald’s e nuovi cantieri per camuffare le opere incompiute. Nel frattempo a Milano prende il via l’Expo dei popoli. Poi la mobilitazione proseguirà in autunno a New York e Parigi.

Il pianeta degli obesi e quello dei denutriti, le food corporation e i piccoli produttori locali, i semi antichi e i robot che servono ai banchi del supermercato. Nel milione di metri quadri che dal primo maggio ospiterà Expo 2015 c’è posto per tutto. E il contrario di tutto. Un mix di ingredienti controversi conditi in salsa italiana: inchieste della magistratura, consumo di suolo agricolo e perfino una società civile divisa nel giudizio e nelle modalità di “presidiare” l’evento.

Quello che non manca, di sicuro, sono i grandi sponsor, ognuno con la sua declinazione dello slogan “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Il tema del cibo “tira” e gli organizzatori rivendicano con orgoglio di aver raccolto cifre record: oltre 370 milioni di euro tra sponsorizzazioni e partnership, a fronte dei 50 milioni di dollari del budget di Shangai 2010 e dei 180 milioni di dollari preventivati per il prossimo appuntamento di Dubai, nel 2020.

Moneta sonante che arriva da colossi come Finmeccanica, Intesa San Paolo, Fiat Crysler Automobiles, Enel, Samsung, Tim. Ma anche da big dell’alimentare come l’official soft drink partner Coca Cola, che annuncia di voler raccontare nel suo “padiglione corporate” «il proprio modello di sostenibilità, basato sulla promozione di stili di vita attivi, l’importanza di un’alimentazione equilibrata, l’innovazione di prodotto e confezioni, la protezione dell’ambiente». Poi, ci saranno Nestlé in veste di water partner con il marchio San Pellegrino, Coop con il supermercato del futuro, Illy caffè e Birra Moretti e, ultimo in ordine d’arrivo, McDonald’s. Il colosso degli archi dorati annuncia il suo ingresso in pompa magna, precisando che l’80% dei prodotti che serve lungo lo Stivale è made in Italy e che «sposa i valori di Expo 2015» con un progetto dedicato ai giovani agricoltori italiani. Anche in questo caso il padiglione-ristorante, il più grande dell’Expo con i suoi 300 posti, «rappresenterà una vetrina non solo sull’azienda, ma sulle filiere agricole italiane partner del marchio globale, per raccontare la storia di un sistema composto da McDonald’s, gli imprenditori locali e il mondo agricolo».

Vittorio Agnoletto, che con Emilio Molinari ha ironizzato sulla presenza di McDonald’s paragonandola alla nomina di Erode a testimonial dell’Unicef, commenta: «Ci sono tutte le premesse perché l’Expo si riveli soltanto un gigantesco spot dell’industria globale del cibo». L’ex europarlamentare critica «l’imbroglio culturale che Expo porta con sé, con l’uso spregiudicato del termine “sostenibilità” e un furto del linguaggio nei confronti dei movimenti che lo contestano».

Made in Italy dove?

«Sarà un grande successo e ci consentirà di presentare l’Italia al mondo. Questo con buona pace di tutti i gufi». Per Matteo Renzi l’esposizione universale è la vetrina del made in Italy, lo ha ribadito il 13 marzo a Rho Pero dal palco allestito in mezzo ai cantieri, davanti a una delegazione dei cinquemila operai impegnati nel tour de force per ridurre i ritardi dei lavori. Qualche cantiere chiuderà a Expo in corso e alcune opere vedranno la luce soltanto dopo la fine dell’esposizione. Per questo la macchina organizzativa, ha già avviato le procedure per un intervento di camouflage, accorgimenti scenografici che serviranno a mettere una toppa visiva dove ci sono opere incompiute. Per salvare l’immagine della «cattedrale laica» – per usare la definizione di Matteo Renzi – servirà un maquillage da oltre un milione di euro.

Ne va dell’immagine dell’intero Paese e per tutelarla il premier sfoggia tutto il suo “expo-ottimismo”: «Expo non è più la fiera degli scandali: quella pagina lì è chiusa». Parole incaute, per almeno due motivi: perché le indagini dei mesi scorsi sono ancora aperte; e perché due giorni dopo averle pronunciate, la procura di Firenze ha fatto arrestare quattro persone per la gestione illecita di appalti relativi alle grandi opere, tra cui la Tav e per l’appunto Expo.

Uno degli arrestati – assieme a un collaboratore e a due imprenditori – è Ettore Incalza, dirigente e, dopo il pensionamento, consulente del ministero delle Infrastrutture (in carica ininterrottamente da quando era in carica Pietro Lunardi). Le carte dell’inchiesta fanno riferimento anche al ruolo che avrebbe avuto l’attuale titolare delle Infrastrutture Maurizio Lupi nel garantire a Incalza la guida della struttura tecnica di missione per le grandi opere, minacciando addirittura una crisi di governo pur di garantirgli il posto. Dall’indagine emergono «influenze illecite sulla aggiudicazione dei lavori di realizzazione del cosiddetto Palazzo Italia Expo», il cui termine lavori era già slittato dal 16 dicembre scorso al prossimo 18 aprile. Un altro scandalo italiano e una nuova figuraccia globale a meno di un mese e mezzo dall’inaugurazione. Non intendeva certo questo il premier quando ha dichiarato: «Facciamo vedere al mondo di che cosa è capace l’Italia».

Un ventaglio di opposizioni

Inchieste e contraddizioni hanno anche dato vita a diverse posizioni in seno alla società civile. «A maggior ragione adesso – aggiunge Vittorio Agnoletto – rivolgiamo un appello alla riflessione a quanti, impegnati in prospettive alternative alla globalizzazione alimentare, hanno dato la loro adesione, seppure in forme diverse, al contenitore Expo, fornendole l’alibi di un impegno sociale per il bene comune del quale francamente si fatica a trovarne traccia». Oltre alla posizione intransigente e non dialogante dei NoExpo, c’è chi ha scelto di raccogliere la sfida – a questo scopo è nata la fondazione Triulza – accettando di portare le proprie ragioni dentro l’Expo, che per la prima volta nella storia riserva una vetrina alla mobilitazione dal basso.

In mezzo, tra le due posizioni, si colloca una parte dei movimenti sociali, produttori e consumatori critici che hanno dato vita al Comitato per l’Expo dei popoli. Se i NoExpo hanno reciso ogni cordone con l’Esposizione universale, così non è per Expo dei popoli: «È l’occasione di portare i nostri temi al centro del dibattito, un luogo di comunicazione politica in cui rappresentare una posizione diversa: la nostra», spiega il portavoce Giosuè De Salvo. «Sapevamo benissimo che Expo avrebbe rappresentato la società così com’è, quella che non ci piace e che vogliamo cambiare. Era del tutto scontata la discesa in campo di Mc Donald’s, Coca Cola e Nestlé. Sono loro, al momento, a dominare questo mondo, perciò saranno loro i protagonisti».

Partecipare al dibattito, quindi, con l’obiettivo di ristabilire la democrazia rispetto al cibo e al modo in cui il cibo arriva dalla terra al piatto. E con parole d’ordine chiare: sovranità alimentare e giustizia ambientale. Il comitato muoverà i suoi primi passi a Genova il 21 marzo e a Napoli ad aprile, per giungere al forum internazionale che si svolgerà dal 3 al 5 giugno a Milano presso la Fabbrica del vapore, dove chiamerà a raccolta oltre 150 delegati da tutto il mondo.

Sono passati 16 anni dalla nascita del “popolo di Seattle”, quello del movimento No global. Della stagione delle reti e dei Forum mondiali, oggi rimane un arcipelago di movimenti sociali in crisi, che ragionano in termini di sopravvivenza, «perciò fare rete di questi tempi è antistorico, ma paradossalmente è ancora più urgente di 15 anni fa». Fare rete, appunto. Non farla potrebbe significare lasciare che a dominare – incontrastati o quasi – siano i sistemi alimentari delle multinazionali. Quelli che persino le Nazioni Unite hanno definito «rotti», perché rispondono solo a logiche di profitto.

Tanti no per un sì Attivisti, movimenti. E, soprattutto, produttori: contadini, pescatori, allevatori. Sono tante le buone esperienze nel Belpaese, ma come si fa a metterle insieme fino a crearne un modello? «È questa la sfida», risponde il portavoce di Expo dei popoli. «Perché siamo sì portatori di buone pratiche ma, innestata sulla buona pratica, c’è una riflessione politica: garantire i diritti fondamentali quali acqua, terra, sementi e il diritto al cibo». Un modello che sia alternativo – e competitivo – rispetto a quelli oggi predominanti «Gli attuali sistemi alimentari si sono “rotti” perché sono funzionali solo alla massimizzazione dei profitti di pochi e non garantiscono un diritto al cibo di qualità a tutti gli altri».

Gli attori del settore privato che controllano la filiera del cibo dal campo al piatto si contano davvero sulle dita di qualche mano: solo sette imprese controllano il mercato delle sementi, un pugno di corporation trasforma il cibo, da Nestlé a Coca Cola, e sono poche quelle che lo distribuiscono. «Il risultato è che alcune grandi imprese fanno man bassa della terra, accaparrandosene la proprietà», denuncia De Salvo. «Questa concentrazione di potere crea un’urgenza democratica». Come reagire allo strapotere dei colossi? I piccoli produttori lo fanno già, ognuno nel suo territorio. Quello che fanno i bio-produttori è un po’ come inserire la propria salute e quella del pianeta tra le voci di bilancio della propria impresa. A differenza di chi prenderà parte a Expo, «chi aderisce a Expo dei popoli ha nel suo conto economico un fattore legato al suo ruolo sociale», precisa l’economista Andrea Di Stefano. Il limite è quello che la natura impone, anche al capitalismo. «Introiettare la sfida vuol dire porsi l’interrogativo di come poter essere sostenibili non avendo come unico obiettivo quello di massimizzare il profitto e crescere permanentemente».

Le regole del gioco

Le reti sociali hanno già stabilito le regole del gioco, adesso devono essere in grado di trasformarle in regole dell’economia. E per effettuare – finalmente – il salto di qualità servono strumenti pratici. Ma che non siano gli incentivi, avverte Andrea Di Stefano: «Stiamo ancora pagando i costi di un approccio troppo finanziario e poco industriale. La risposta fondata sul ricorso agli incentivi ha prodotto una serie di distorsioni, adesso anche l’Ue deve darsi nuove regole. Quella impostazione poteva essere utile in una prima fase, ma manca di un respiro di lungo periodo».

Quello che serve, suggerisce l’economista, è «l’adozione di regole e standard elevati, come è stato fatto su alcuni temi ambientali». Un esempio si può leggere nel contributo di Mariana Mazzuccato che, nel libro Lo Stato innovatore (2014) riafferma il ruolo decisivo delle istituzioni pubbliche nel farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. «Adesso si tratta di rivendicare un’innovazione sul fronte sociale e ambientale che sia ispirata alla stessa filosofia», è sicuro Di Stefano.

Ma a guardare l’atteggiamento delle istituzioni, specie quelle europee, si riscontra una certa schizofrenia. Da una parte l’Unione prova a definire nuovi profili normativi, che rispondono alle logiche delle reti sociali. Dall’altra tratta con il Nord America, anche segretamente, il Ttip (il Trattato di liberalizzazione su commercio e investimenti), che mette in pericolo la stessa sovranità degli europei. «Non lo sappiamo ancora, ma il rischio è elevatissimo», precisa Di Stefano.

Quello che è certo è che si delinea lo scontro tra le due diverse concezioni, reti sociali o multinazionali? La partita non è affatto chiusa. E le regole sono ancora da costruire. In questo quadro, Milano è solo una delle tappe di mobilitazione internazionale. La discussione sui temi macroeconomici si sposterà a New York – dal 25 al 27 settembre – dove l’Assemblea dell’Onu analizzerà i risultati conseguiti nella lotta alla fame e alla povertà e discuterà i piani e gli obiettivi futuri. Poi a Parigi – il 7 e 8 dicembre – alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop 21), dove è in ballo la possibilità di un cambio di paradigma nella lotta agli sconvolgimenti del clima. Intanto, nel mondo si contano 800 milioni di uomini e donne malnutriti.