Ben venga il Quantitative Easing di Mario Draghi, senza sottovalutare gli inconvenienti di natura istituzionale e distributiva.

Dopo innumerevoli annunci, la Banca centrale europea ha finalmente lanciato le operazioni di “quantitative easing” (QE), letteralmente “facilitazione monetaria”, più semplicemente espansione monetaria. Si tratta di acquisti, sul mercato, di titoli del debito degli Stati membri dell’Unione, e anche di obbligazioni private. Il programma, fino all’ultimo tenacemente osteggiato dalla Banca centrale tedesca (la Bundesbank), è stato salutato con favore dagli economisti che sono più interessati alle esigenze della crescita, che non a quelle del rigore finanziario.

Una politica monetaria espansiva può, infatti, contribuire a rilanciare l’economia, perché tiene bassi i tassi di interesse e perché la liquidità aggiuntiva consente, almeno in linea di principio, alle banche di riaprire i rubinetti del credito a imprese e famiglie. Del resto gli Stati nazionali, quando ancora erano padroni delle proprie politiche monetarie, hanno sempre fatto ampio uso di questo strumento per perseguire i propri obiettivi di politica economica. Ben venga dunque il QE di Mario Draghi. Ma ci sono anche inconvenienti molto seri, sottovalutati nel dibattito corrente.

Inconveniente di natura istituzionale

Il primo è di natura politica e istituzionale. La Bce non è una banca centrale di un singolo Paese, come lo era per noi la Banca d’Italia, e come ancora lo sono la Federal Reserve per gli Stati Uniti o la Banca del Giappone. La Bce è una banca che presidia un’unione monetaria tra diversi Paesi. Se acquista massicciamente titoli del debito pubblico di uno di questi Paesi, ne diventa presto il principale creditore con tutte le conseguenze che questo può avere in futuro in termini di influenza, diciamo così, sulle decisioni di quello Stato.

Lasciamo pure perdere il 2011, una certa letterina della Bce al governo italiano, che sicuramente Berlusconi e Tremonti non hanno dimenticato. Pensiamo solo alla Grecia di oggi. La Bce ha deciso di non finanziare più le banche greche, quando queste portano in garanzia titoli del debito pubblico greco, e ha escluso la Grecia dalle operazioni di QE. Tsipras ha accusato la Bce di tenere il Paese in ostaggio. Draghi si è schernito, dall’alto della sua posizione di massimo finanziatore della Grecia: ma come – ha detto davanti al Parlamento europeo – abbiamo già dato alla Grecia 104 miliardi, pari al 65% del loro Pil, come si può parlare di ricatto? Fatto sta che la Bce è oggi arbitro del destino di una nazione.

Inconveniente di carattere distributivo

Molti economisti sostengono che il QE aumenti le diseguaglianze. Alcuni studi provano che il QE operato per anni dalla Federal Reserve è stato uno dei fattori alla base dell’enorme aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza negli Stati Uniti. E lo stesso è avvenuto in Giappone. Uno studio del più prestigioso centro di ricerca economico del mondo (il Nber di Cambridge, Massachusetts) ha individuato le ragioni per cui il QE aumenta il divario tra ricchi e poveri: il QE aumenta il valore delle attività finanziarie, che sono possedute più dai ricchi che dai poveri; aumenta più i profitti dei salari; favorisce chi compra e vende sui mercati finanziari, un’attività più diffusa tra i ricchi che tra i poveri. Un effetto in senso contrario, cioè favorevole al mondo del lavoro, si ha se il QE aumenta l’occupazione. Ma si tratta di una scommessa, perché bassi tassi di interesse ed elevata liquidità non necessariamente fanno aumentare la produzione e l’occupazione.