Il problema è che la nostra classe dirigente non considera un problema l’erosione progressiva di lettori perché per il Lettore zero è facile rassegnarsi a considerare quella che sta vivendo come l’unica realtà possibile.

L’assegnazione del Global Teacher Prize, “il premio Nobel della Scuola”, alla professoressa Nancie Atwell, ci ha ricordato che la lettura è in crisi, anche se è centrale nella formazione. L’insegnante statunitense si è segnalata, infatti, per aver saputo diffondere, in una fase storica difficile per il libro, il gusto per la lettura tra i suoi allievi, divenuti grazie al suo metodo lettori forti, da 40 libri l’anno.

Il principio è semplice e ha avuto anche in Italia convinti sostenitori (come Roberto Denti): associare la conquista della lettura a quella dell’autonomia. Gli allievi non sono obbligati a leggere tutti lo stesso testo, ma possono scegliere tra i tanti volumi della biblioteca scolastica. Quello che vale per la lettura, viene applicato anche alla scrittura: sono sempre gli allievi a sceglieregli argomenti sui quali scrivere. Il metodo di Nancie Atwell in 25 anni ha prodotto ottimi risultati.

Sul rapporto tra lettura e autonomia è tornato un libro recente di Giusi Marchetta, scrittice e insegnante (Lettori si cresce, Einaudi). L’autrice confessa che la sua passione per la lettura è nata nel momento in cui ha scoperto che i libri raccontano quella parte della vita che gli adulti più vicini non vogliono svelarci o ignorano. Il libro affronta il tema del piacere della lettura dal punto di vista di un allievo non lettore.

Il suo immaginario è invaso da serie tv, reality e videogiochi, come la sua volontà è piegata da tre comandamenti che la politica scolastica degli ultimi vent’anni ha provato a introdurre nelle aule: 1) non è arte ciò che è arte, è arte ciò che piace; 2) chi non vince è perduto; 3) se è vero, è interessante, se è interessante, parla di te.

Il Lettore zero è stato incoraggiato da una classe dirigente che si è occupata della tutela e promozione della cultura «nello stesso modo in cui se ne occuperebbe un ragazzino problematico di quattordici anni: chiedendosi a cosa serva».

Qualche anno fa, nel saggio L’Italia che legge (Laterza, 2010) Giovanni Solimine osservava che i nostri dirigenti, imprenditori e professionisti leggono più dei propri dipendenti per motivi strettamente professionali, ma meno per svago. E aggiungeva che il 31% della nostra classe dirigente non ha laurea, il 49% non legge i giornali e il 64% non va a teatro. Se mettiamo insieme a questi dati la constatazione del fatto che i messaggeri del piacere di leggere, cioè gli insegnanti, sono trattati malissimo da quella stessa classe dirigente che non legge, il quadro è completo.

Perché i giovani dovrebbero appassionarsi alla lettura? Forse grazie ai festival e alle rassegne, con cui in Italia si promuovono libri e lettura, molto spesso in contrasto con la scuola, considerata non un alleato ma un micidiale killer del piacere di leggere? La strategia di rendere l’istruzione sempre più un fatto marginale non ha facilitato la connessione, tanto ricercata a parole, tra la scuola e la vita. E la lettura, di conseguenza, è stata relegata in un mondo consolatorio di sentimenti edificanti e di grandi valori astratti. Il problema è che la nostra classe dirigente non considera un problema l’erosione progressiva di lettori perché per il Lettore zero è facile rassegnarsi a considerare quella che sta vivendo come l’unica realtà possibile.