Quella che oggi è in atto è la figlia dell’età della globalizzazione. Una guerra globale. Ma è anche una guerra dove gli schieramenti sono paurosamente disuguali. Da una parte ci sono i Paesi ricchi, dall’altra c’è un’umanità disperata, lacerata da mille divisioni. Ci sarà una istituzione mondiale capace di reagire?

Un commento dell’autorevole Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) di lunedì 20 aprile alla strage dei 950 (ma lì il numero era 700) poneva il problema della colpa e rispondeva: la colpa non è dei Paesi europei ma dei governanti africani. È uno dei tanti casi in cui chi segue le notizie e i commenti sulle stragi in atto nel Mediterraneo è colpito dalla dismisura tra gli accadimenti e la coscienza che se ne ha in Europa. E non è solo perché l’Europa, chiusa negli egoismi nazionali, è «spaventosamente indietro nella creazione di uno spazio pubblico europeo», come scrive Andrea Zannini al termine della sua Storia minima d’Europa dal neolitico a oggi (Il Mulino).

Il bilancio di questa storia millenaria rischia di essere un rendiconto notarile in una causa per fallimento. L’Europa che era risorta dicendo “mai più” al genocidio dei lager oggi chiude gli occhi davanti al genocidio per annegamento. Sono lontani i tempi in cui si dibatteva sull’identità europea e sul preambolo che doveva definirne i caratteri: il cristianesimo? L’Illuminismo? Non troviamo né solidarietà cristiana né un barlume di quell’idea dei diritti e della dignità umana che animò la migliore cultura europea del ’700 e mise in moto le rivoluzioni dell’età contemporanea.

Siamo spettatori di una strage sempre più grande e ne siamo in qualche modo tutti responsabili. Il comandante generale della guardia costiera italiana Felicio Angrisano, intervistato da Repubblica, ha parlato di “un esodo epocale”, quello di “una nuova nazione di migranti e rifugiati”. I poveri del mondo, le vittime di sistemi creati dal neocolonialismo e dalla lotta per l’egemonia mondiale nello sfruttamento delle risorse, affrontano il pericolo di morire annegati perché non hanno altra scelta.

“Vivere liberi o morire” fu il motto delle rivoluzioni politiche nello spazio europeo e atlantico; “vivere di lavoro o morire combattendo” fu quello delle rivoluzioni sociali. Oggi libertà e lavoro sono negati ai dannati della terra e l’Europa li rigetta nel nulla: corpi senza nome, censiti ogni giorno a centinaia nei verbali degli obitori. E intanto il mare inghiotte quantità incontrollabili di annegati. Sono i caduti di una guerra mondiale di tipo nuovo, in cui tutti siamo coinvolti, ma con ruoli assai diversi. Stiamo ricordando nelle feste nazionali i giorni della Liberazione: che fu liberazione da uno stato di guerra mai visto prima, un conflitto senza frontiere che non risparmiava nessuno.

Quella che oggi è in atto è la figlia dell’età della globalizzazione – una guerra globale. Ma è anche una guerra dove gli schieramenti sono paurosamente disuguali. Da una parte ci sono i Paesi ricchi, dove i cittadini godono diritti di libertà e abbondanza di beni di consumo e sono spaventati dal rischio di doverli condividere con altri. E i capi di Stato obbediscono a questi istinti, da Obama, premio Nobel della pace, a tutti gli altri. Dall’altra c’è un’umanità disperata, lacerata da mille divisioni, che affronta il pericolo e la realtà della morte perché non ha alternative. L’esito del conflitto è scritto in anticipo. A meno che, questa volta almeno, il vedere tutti i giorni l’inferno che ignoreremmo volentieri non ci tolga l’alibi che funzionò al tempo della Shoah. Il senso di colpa grava su tutti noi e non saranno sofismi come quello della Faz a cancellarlo. Ci sarà una istituzione mondiale capace di reagire? Davanti al fallimento dell’Europa la domanda passa all’Onu.