Relight è l'unica azienda italiana a riciclare apparecchiature elettriche ed elettroniche in maniera virtuosa. Ed è completamente rosa.

A Rho, a poca distanza dall’area dell’Expo 2015, c’è una miniera. Montagne di vecchi televisori, tubi catodici, elettrodomestici rottamati, computer abbandonati: un cimitero della modernità. La materia da estrarre è lì dentro e ha nomi da romanzo fantasy: ittrio, europio, gadolinio, terbio. Polveri sottilissime e preziose, che in natura si trovano unite ai minerali. Estrarle è difficile e dispendioso. Le hanno chiamate “terre rare”. La Cina ne detiene quasi il monopolio. E se non vogliamo soccombere, dobbiamo darci da fare per recuperarle dagli oggetti elettronici d’uso quotidiano che senza pensarci buttiamo via quando non ci servono più. Meglio andarsi a riprendere quelle polveri tra i rifiuti, quindi. Ma ci vogliono gli impianti giusti, la tecnologia e infine la cultura. Perché riciclare è un gesto collettivo e un’attitudine umana da coltivare, prima che un processo tecnico avanzato. «Credo molto nella condivisione di idee e conquiste raggiunte», spiega Bibiana Ferrari, la“tecnovisionaria” (il titolo glielo hanno conferito davvero) che quindici anni fa, rimasta senza lavoro, fondò la Relight, oggi azienda all’avanguardia nel riciclo di materiali elettronici. «Perciò, abbiamo pensato di offrire a chi viene a Milano per l’Expo una visita guidata alla nostra azienda: far conoscere quello che facciamo è il nostro contributo per nutrire il pianeta».

A Rho, l’imprenditrice ha cominciato con il recupero delle lampade al neon. E pochi mesi fa ha inaugurato l’ultima creatura, un impianto HydroWee realizzato su scala semi industriale, grazie ai fondi europei Horizon 2020. È lì che gli oggetti abbandonati nelle isole ecologiche, triturati e passati al setaccio, ridiventano polvere e materia prima da reinserire nel ciclo produttivo. A ritmo di 165 tonnellate l’anno. Custodi di questo regno hight- tech, dove il 90% di ciò che si rottama prende nuova vita, sono le donne di cui Bibiana si è circondata. Su 40 dipendenti, alla voce “uomini” si contano solo i 12 operai dell’impianto di riciclaggio (tutti stranieri), un manutentore e Daniele, 32 anni, che fa da ponte con la plancia di comando, dove ci sono solo donne e molte giovanissime, comunque “under 52”, età della fondatrice: «Sono io la senior da quando Francesca se ne è andata in pensione. Un distacco sofferto a cui siamo arrivate dopo riduzioni d’orario e part-time somministrati in dosi omeopatiche». Altro che Jobs Act: «Per un’azienda è importantissima la continuità. Formare una persona è un grande sforzo, ma alla fine hai un valore perché hai investito nel capitale umano e te lo tieni stretto». Il fatto che alla Relight questo capitale si declini quasi per intero al femminile ha rappresentato uno stimolo in più a essere alternative, con la “e” finale.

Qui tutto è declinato, anche il concetto di permesso o di orario ridotto: «Se hai bisogno di tempo per stare con i tuoi figli, te lo prendi e ti gestisci in autonomia, lavori da casa se vuoi, tanto siamo sempre tutti collegati. È il nostro socialismo reale», si schermisce la fondatrice. Un mix di flessibilità e responsabilità che fa molto azienda “rosa”: «Non vorrei sembrare una che discrimina però, ho solo messo su una squadra che lavora in armonia e il caso ha voluto che fossimo tutte di un certo genere». Anche se, accanto a questa, c’è un’altra forma di flessibilità che permette alla Relight di sopravvivere: la cooperativa di addetti di cui l’azienda si serve per gestire ritmi di produzione assai variabili da un periodo all’altro dell’anno. «Con il picco a gennaio, dopo le feste di Natale, quando le persone si disfano dei vecchi elettrodomestici». La crisi, ovviamente, si è fatta sentire anche da queste parti: «L’abbiamo affrontata rinegoziando il contratto d’affitto, chiedendo ai nostri autisti di rifornirsi solo nelle stazioni dove la benzina costa di meno, abbiamo introdotto un sistema per spegnere la luce quando non ci serve», spiega Bibiana. Una spending review senza toccare i posti di lavoro e continuando a investire in ricerca. È il modello Rho. Porte aperte per chi vuole conoscerlo.

Foto di Stefano D’Amadio 

(Da Left numero 6)