Calcio e impegno politico possono andare di pari passo. Il racconto di tre giocatori e un allenatore che hanno “perseverato” dagli anni 70 a oggi. Pagandone spesso le conseguenze.

Sono mosche bianche, o meglio, rosse: si contano sulle dita di una mano i calciatori e gli allenatori professionisti italiani che hanno dichiarato di essere di sinistra. Dalle simpatie per le organizzazioni extraparlamentari, passando per il Partito comunista fino ad arrivare a Sel, c’è una costante che vale per tutti: mai rinnegare il proprio credo, anche al cospetto di un mondo che all’impegno politico ha sempre prediletto il luccichio dello star system e della moneta sonante. Nei giorni in cui la sinistra sembra essere sparita dallo scenario politico, da altre parti ancora persevera. A queste “eccezioni”, abbiamo chiesto cos’ha significato.
Paolo_SollierDi tutti Paolo Sollier, 67 anni, è stato forse il precursore. Cresciuto a Torino, ex impiegato Fiat a Mirafiori, fa della sua passione, il calcio, la sua professione. Esponente di Avanguardia operaia, a metà anni 70 gioca in serie A col Perugia e la domenica saluta col pugno chiuso i tifosi del Grifo e i compagni di militanza che lo seguono dagli spalti. «Quante polemiche per quel gesto – ricorda Sollier – ma erano anni di cambiamenti che un ambiente chiuso come quello del calcio faticava ad assorbire. Vedo però che le istanze legate allo statuto dei lavoratori, al movimento femminista e a quello ambientalista sono tornate prepotentemente d’attualità». Convinzioni politiche, quelle di Sollier, che non hanno mai inciso sul suo modo di giocare o di allenare: «Non c’è un modo di sinistra di essere calciatori, la squadra è di per sé una piccola comunità ma non sempre le carenze individuali nel gioco vengono sopperite dal collettivo». A chi gli ha rimproverato di predicare bene e razzolare male, ossia di guadagnare tanto, in barba al credo professato, Sollier ha sempre ribattuto con la cruda realtà: «Altri tempi, all’epoca al massimo guadagnavo come un buon impiegato. Comunque ho sempre messo a disposizione un po’ di soldi per iniziative politiche o per giornali che leggevo». Più del denaro, e di una popolarità ben lontana dagli strepiti d’oggi, ha sempre contato la coerenza: «È la forza delle idee che deve avere la preminenza. Guardate Sean Penn: è un’icona di Hollywood, ma non ha mai rinunciato alla battaglia».

Renzo Ulivieri, 74 anni, è il decano degli allenatori italiani: per lui pallone e impegno politico sono sempre andati di pari passo. Negli anni 60 ha ricoperto l’incarico di consigliere comunale e assessore del Pci a San Miniato, mentre oggi, sempre nella cittadina toscana, è il segretario del circolo di Sel, con cui s’è candidato al Senato alle politiche del 2013. Leggendario il busto di Lenin che custodiva in casa, simbolo di una convinzione che può anche tradursi in campo: «Soprattutto – spiega “Renzaccio” – nel modo di allenare e di rapportarsi con gli altri. Quando si guida una squadra di calcio si portano con sé esperienze, cultura e pensiero politico». La predica sui soldi se l’è dovuta sorbire anche lui: «Il segretario del Pci di San Miniato mi disse che avevo preso una strada troppo corta, e che l’avevo presa da solo. Aveva ragione, il sistema purtroppo è questo, ma il mercato comanda solo chi lo accetta acriticamente. Non si può imporre una propria logica di mercato, ma si può lottare affinché non incida sulla vita e sulla dignità delle persone». Difficile far sentire la propria voce in un mondo che, sottolinea Ulivieri, «ha tre obiettivi fondamentali: produrre risorse economiche, spettacolo e risultati», ma essere di sinistra e calciatori ha ancora un senso: «Senza problemi, magari per combattere quelle dinamiche di sfruttamento del lavoro che esistono anche nel mondo del calcio».

Luciano Zecchini, classe ‘49, giocava negli anni 70 per Torino, Milan, Sampdoria e Perugia e simpatizzava per Lotta continua. Tra- montata quella stagione non ha perso lo slancio: «Per me essere di sinistra è sempre stato normale – esordisce l’ex difensore – semmai il problema è nel nostro ambiente, troppo cristallizzato e amante dei “soldatini”». Una professione di fede che secondo Zecchini può anche riflettersi sul rettangolo di gioco: «È un’espressione di ciò che si è nel quotidiano, e per quanto non creda che un allenatore
possa dare un senso di parte all’impostazione di gioco, può costruire una squadra puntando molto sulla forza del collettivo». Il discorso economico non lo tocca più di tanto: «Io giocavo per passione, in modo sano e genuino. Criticare chi guadagna molto è una speculazione di basso livello. Chi è più bravo è giusto che venga premiato». Pur definendo il pianeta calcio «un ambiente misero, in cui l’etica non è certo diffusa», Zecchini crede nella rivendicazione dell’appartenenza ideologica: «Bisogna avere il coraggio di portare avanti le proprie idee, informandosi e tenendo conto dei problemi reali, senza farsi condizionare da denaro e popolarità».

Cristiano Lucarelli è forse il più noto di tutti. Trentanove anni, livornese, non ha mai na- scosto le sue simpatie di sinistra: «E più d’una noia l’ho avuta – racconta il bomber – perché il calcio è conformista e non accetta che si possa avere una coscienza critica. Essere di sinistra porta problemi, e magari salta l’ingaggio con il grande club o la convocazione in Nazionale. Conosco colleghi che hanno preferito non esporsi». In azzurro, con la maglia dell’Under 21, segnò nel ’97 una rete che fece scalpore: esultò mostrando una maglia con l’effigie del Che, simbolo delle Brigate autonome livornesi, la tifoseria organizzata della squadra amaranto. Apriti cielo, e per indossare di nuovo una divisa della Nazionale ha dovuto aspettare otto anni. Per vestire quella del suo Livorno, invece, undici anni fa accettò un’offerta inferiore di un milione di euro rispetto a quella del Torino. «Al calciatore si associano sempre tanti soldi, Ferrari e veline, ma oggi in Italia ci sono sessanta club professionistici su cento totali che pagano stipendi non superiori ai 1.500 euro al mese».
Tuttavia, pur non rinnegando il proprio pensiero, Lucarelli confessa che non consiglierebbe a un giovane calciatore di prendere posizione: «Meglio lasciar perdere, sarebbero solo problemi.Ma è bene avere sempre uno sguardo critico sul mondo, anche solo per prendere coscienza dei sacrifici che fanno i tifosi per seguirci dappertutto».

(Left numero 13)

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