Le serie tv come Sex and The City e Girls hanno formato le ultime generazioni di ragazze. Ma Carrie è ormai un ricordo.

In principio fu Sex and The City. E fu una vera e propria rivoluzione. C’erano New York, gli accessori fashion e i locali altrettanto alla moda. Soprattutto c’era il sesso, raccontato per la prima volta in tv in modo schietto e diretto. È il 1998 e sul piccolo schermo, grazie alla serie lanciata da HBO, i personaggi femminili assumono un’altra dimensione: sono donne libere, emancipate e in carriera. Diventano reali, accattivanti, media friends e, in fondo, non sono poi così diverse da noi che stiamo a casa sedute sul divano a guardarle. Le quattro protagoniste – Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha – lavorano, amano, sperimentano, piangono, si confidano, si consolano. Tra mille peripezie mostrano cose che, alla fine degli anni Novanta, evidentemente ancora non erano tanto ovvie: essere single non significa essere delle zitelle sfigate; una donna può non saper cucinare, lavare, pulire e stirare; parlare di autoerotismo, vibratori, ménage à trois non è un tabù; fare sesso può essere qualcosa che va al di là dell’amore romantico e, soprattutto: essere scarica- te può essere un dramma, ma non è mai una tragedia.

«Benvenuti nell’era dell’anti-innocenza: nessuno fa Colazione da Tiffany e nessuno ha relazioni da ricordare; facciamo colazione alle sette e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare il più in fretta possibile. Cupido ha preso il volo dal condominio»

È con queste parole che Carrie Bradshaw, ci accoglie nella sua scintillante Manhattan.
Nei primi anni Duemila Sex and The City, con le sue morali antiromantiche e le sue, altrettanto ciniche pillole di saggezza, è diventato un manuale di educazione sentimentale per le ragazze moderne e un galateo sessuale anche per le generazioni successive.

 

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Dopo il successo delle avventure di Carrie & co i palinsesti hanno cominciato a popolarsi di serie tutte al femminile, meno fortunate e graffianti dell’originale, ma sempre intenzionate a parlare con la stessa schiettezza di cosa significa essere donne. Ci sono stati Cashmere Mafia e Lipstik jungle, dove le protagoniste, che qualcuno definirebbe scabrosamente “con le palle”, tentano di coniugare vita sentimentale e carriera senza rinunciare a nulla; poi sono arrivati Mistress, Carrie’s diaries, il prequel che racconta la vita della Bradshaw ventenne, e finalmente Girls. A quasi vent’anni dalla messa in onda del primo episodio di Sex and The City, le cose sono molto cambiate. O meglio, sono le ragazze, con le loro vite sentimentali, a essere cambiate.

In Girls, a differenza di Sex and The City, non c’è traccia di quell’identità collettiva femminile che aveva lottato per l’affermazione di uno stile di vita diverso e manca totalmente il confronto fra identità maschile e femminile. La protagonista Hannah Horvath – interpretata da Lena Dunham una specie di enfant prodige che a soli 25 anni è sceneggiatrice, attrice, regista della serie e scrittrice di culto – non ha niente a che vedere con Carrie. È goffa, brutta, in sovrappeso, concentrata su se stessa, veste solo abiti vintage da mercatino dell’usato, non frequenta posti alla moda e il più delle volte la vediamo bighellonare sciatta in mutande per casa per casa o  mentre mangia junk food in pigiama. Ad Hannah e alle sue amiche capita di incontrare dei “Mr. Big”, ma non li trovano interessanti e li catalogano immediatamente come non attraenti. I Mr. Big infatti sono il prodotto di un’altra generazione, parlano un linguaggio diverso, e con “le ragazze” si capiscono a fatica. Se per Carrie erano scapoli d’oro, capaci di far innamorare anche la single più accanita, in Girls diventano semplicemente degli sfigati con un bel appartamento. L’educazione sentimentale di Hannah oscilla tra continui dubbi e incertezze, tra l’impegno e la fuga, tra l’amorale e il bigotto. Si mostra un mondo fatto di individualità e stranezze, irregolare e non convenzionale anche quando si parla di sesso e emozioni, al punto che per le protagoniste, a differenza di Carrie, è impossibile razionalizzare e trovare una qualche massima o un qualsivoglia galateo amoroso a cui aggrapparsi per definire la situazione e sapere come agire. A guidare le millenials nell’intricato groviglio dei sentimenti è l’istinto del momento e, se bisogna riconquistare il ragazzo che in quell’istante si è convinte di amare, ogni remora o pudore si cancella in un attimo. Tanto il tempo scorre veloce e le cose si dimenticano in fretta. Tutto passa e allora chi se ne frega se si manda un messaggio di troppo, ci si trasforma in stalker o ci si rende ridicole (vedi ad esempio Hannah che, nel cuore della notte, corre sotto casa di Adam vestita, o svestita a seconda dei casi, nei modi più assurdi).

 

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In Girls le protagoniste sono costantemente in preda al caos, alla paura di essere soli e di non essere più libere. Come se le ragazze del nuovo millennio avessero studiato e imparato le regole sui volumi della Bradshaw e ora si trovassero scisse tra la teoria e la pratica. Costrette a viversi giorno per giorno quello che accade, magari trovandosi a specificare, con un revival di bigottismo 2.0: «Non sono quel tipo di ragazza!», che, non a caso, è anche il titolo dell’ultimo libro della Dhunam. Nuova icona di un’intera generazione che non sa bene dove andare e passa la vita a “fare cose” e gironzolare. In pigiama o in mutande, dopo tutto è lo stesso.

(da Left numero 8)

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