Il modello Eataly raccontato da Wolf Bukowski, tra gigantismo, sostenibilità dubbia e alleanze politico-economiche

Ancora per un paio settimane dovrà “briffare” il presidente del consiglio sulle questioni economiche. Poi dal primo ottobre Andrea Guerra, ex ad di Luxottica e da fine 2014 consigliere di Renzi per le politiche industriali e la business community, passerà alla guida di Eataly. Il colosso farinettiano si prepara a sbarcare in Borsa e, nelle vesti di presidente, Guerra (che possiede anche il 5% delle quote) farà da traghettatore. La creatura dell’ex proprietario di Unieuro si sta espandendo in Europa – tra poco apre a Monaco il primo store extraitaliano nel Vecchio continente – e sempre più nel mondo (il colpaccio sarà il negozio al World Trade Center di New York con affaccio sul cratere dell’11 settembre: Eataly the Peace, si chiamerà).

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Quanto è buono il modello Eataly? E’ la domanda a cui cerca di dare risposta la copertina di Left in edicola sabato 12 settembre e già sullo sfogliatore


Oscar, il traffic builder
Oscar Farinetti è orgogliosissimo di essere un “traffic builder”, di godere cioè dell’apprezzamento degli immobiliaristi perché dove apre un punto Eataly tendono ad affiancarsi altri dettaglianti. Una crescita da multinazionale del food che costringe molti – addetti ai lavori e non solo – a ricalibrare il giudizio sulla “bontà” del suo modello. A questo tema, il numero di Left da domani in edicola dedica la copertina, proponendo una riflessione sulla effettiva sostenibilità (sociale, oltre che ambientale) della filiera, sulle ricadute economiche della “super-tipicità” predicata dal food-guru e sul tipo di offerta turistica che vuole diffondere lungo lo Stivale. Ma la domanda di fondo è: quanto c’è “di sinistra” nel modello Eataly?

Wolf Bukowski
Wolf Bukowski

La “gauche caviar” al supermarket
Nel libro “La danza delle mozzarelle” (Edizioni Alegre), Wolf Bukowski prende in esame la narrazione di Eataly, Coop e Slow food, un mix vincente (non a caso a Expo sono in pratica “padroni di casa”) fatto di capacità di reperire capitali, leadership nella grande distribuzione organizzata (Gdo) e conoscenza approfondita dei prodotti territoriali. Lo scrittore bolognese spiega come questi soggetti siano partiti a diverso titolo «fantasticando una trasformazione sociale a partire dal modo di fare la spesa e di cucinare», una «gauche caviar» che affida l’onere di una rivoluzione «impossibile» ai rebbi delle nostre forchette, ma solo se andiamo al centro commerciale “buono, pulito e giusto”.

Da Gramsci al super-tipico
A questo proposito, cita Marx e la critica di Gramsci all’assunto di Feuerbach per cui «l’uomo è ciò che mangia». E a Left dice: «Gramsci spiegava bene che sono i processi storici a determinare i gusti successivi nella scelta dei cibi e non viceversa». Non basta partire dalla robiolina o dalla coltura iperlocale per costruire una società più equa e sostenibile, dunque? «Quello della super-tipicità non è un modello che implica un cambiamento dei rapporti sociali, né tantomeno produce cibo accessibile a tutti» risponde Bukowski. «La pur meritevole promozione di piccole particolari produzioni è del tutto marginale rispetto alla necessità di costruire un modello basato ad esempio sull’agricoltura di prossimità, sul locale inteso non come tipicità ma come attenzione al benessere del territorio. Invece il modello Eataly è quello di un centro commerciale con prodotti destinati ai ricchi e nuovi ricchi del Pianeta».

Il marketing della rivoluzione
Oscar Farinetti sbarcherà in borsa mascherando con le parole d’ordine della “rivoluzione” una perfetta operazione commerciale e soprattutto di marketing, condita dal costante riferimento all’ottimismo e alla “follia”. (Alla Leopolda di due anni fa, lui e Matteo Renzi si sono scambiati attestazioni di stima dandosi del “matto”, qui il video; entrambi peraltro rivendicano di continuo la bontà del loro “fare” contrapponendolo al “gufare” altrui). Una delle parole “fagocitate”, spiega Wolf Bukowski riferendosi all’alleanza con “il gigante” Coop, è appunto “cooperazione”. «Ma non dobbiamo fare l’errore di respingere il modello in virtù della sua erronea applicazione, perché le idee di fondo erano buone. Anzi, l’analisi di questi fenomeni ci segnala l’urgenza di rivendicare e realizzare nuovi strumenti di cooperazione e mutualismo». Insomma, bisogna mettere al centro il rapporto tra il cibo che portiamo in tavola e la vita, il reddito delle persone. «Il problema – conclude lo scrittore – è che una distribuzione equa della produzione di valore nella filiera dev’essere garantita su tutti i prodotti e per tutti i consumatori». Solo così il nostro cibo sarà davvero “buono, pulito e giusto”.

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