Il candidato populista parla alla maggioranza silenziosa e non gli importa essere coerente. In passato aveva detto: è una questione umanitaria, qualcosa bisogna fare. I 26 milioni raccolti dal senatore del Vermont sono il segnale che alle sue spalle c'è un movimento

«Se vinco io i rifugiati siriani tornano a casa». Donald Trump, in lieve difficoltà nei sondaggi, ma sempre saldamente in testa per la nomination repubblicana, torna a toccare la corda più estrema che ha, quella dell’immigrazione. Chi torna a casa sono i rifugiati siriani che il governo americano ha promesso di accogliere nei prossimi due anni (circa 200mila). «Sono quasi tutti uomini, potrebbero essere gente dell’ISIS e questa potrebbe essere una strategia» è la ragione per cui è meglio non accoglierli data durante un comizio in New Hampshire.

Il fatto che la dichiarazione sia incoerente e faccia a pugni con un’altra frase detta dallo stesso Trump, non conta. Nei giorni successivi alla commozione planetaria per la morte di Aylan Kurdi, lo stesso Trump aveva più o meno detto: non sono entusiasta, ma ci sono momenti in cui bisogna fare qualcosa. Il miliardario costruttore picchia duro e non cerca coerenza: un giorno solletica le corde della pietà, perché la gente davanti agli schermi è commossa, e il giorno dopo torna sul tema che ha contribuito a farne il front-runner: l’immigrazione, stavolta condita dalla guerra al terrorismo e dal pericolo musulmano. Nello stesso comizio, Trump ha anche ricordato di quando Eisenhower rimpatriò centinaia di migliaia di persone.

La sua è una campagna populista oltre il populismo, Trump dice quel che la base repubblicana militante (quella che partecipa alle primarie) vuole sentirsi dire, rassicura su un ritorno a tempi che furono, spiega che sarebbe giusto tassare di più i ricchi, ma, la sua proposta del sistema fiscale non avrebbe effetti sulle tasche dell’1%. E questa è una costante di tutti i candidati repubblicani, fatto salvo Marco Rubio.

Trump parla per la maggioranza silenziosa – che è una minoranza, probabilmente anziana – preoccupata per il futuro e che non si riconosce nell’America che cambia. Una costante di una parte della società Usa che in questi anni ha votato repubblicano e che non si sente rappresentata dall’establishement del partito a Washington, giudicato allo stesso tempo non abbastanza combattivo, da un pezzo della destra, e incapace di produrre risultati e rispondere ai bisogni della gente. L’outsider che spara a zero contro tutti, continua a funzionare e Trump cavalca l’onda. Anche se, come si evince dai grafici qui sotto, l’opinione americana nei confronti degli immigrati non è poi così negativa, il 51% ritiene che daranno forza al paese, mentre soli 1l 41% pensa che siano un peso (molto peggio l’Italia, dove l’opinione pubblica è la peggiore tra quelle indagate dal Pew research Centre per questa indagine). Il primo dei due grafici è relativo a un’indagine condotta in questi giorni: gli americani approvano l’idea di accogliere più rifugiati (ma non i repubblicani, e Trump parla con loro).

U.S. Response to Migrant Crisis
Views of Immigrants in Europe and the U.S.
 


 

Sondaggi, lo stato della corsa repubblicana

Quanti sono i candidati repubblicani e cosa li caratterizza? Da dove vengono e dove si collocano nello spettro politico? Qui la nostra breve guida alle primarie del Grand Old Party

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Sul fronte democratico la notizia è quella della forza di Sanders. Il finanziamento ai candidati ha scadenze fisse e a ogni scadenza i candidati devono produrre un rapporto. Gli ultimi dati, alla vigilia dei rapporti, indicano che il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha quasi raggiunto Hillary Clinton per quantità di donazioni: 28 milioni per la candidata in vantaggio nei sondaggi, 26 per l’inseguitore. La differenza tra l’ex first lady  e il socialista è che il secondo raccoglie una miriade di piccole donazioni, ovvero ha un movimento simile a quello di Obama nel 2008 a sostenerlo. Sanders ha ricevuto già un milione e 300mila donazioni da 650mila persone, nel 2008, a questo punto della corsa, Obama ne aveva ricevute un milione.

I dati sulla raccolta fondi sono l’ennesimo pessimo segnale per Clinton, che dopo settimane passate a parlare delle sue email, oggi si trova titoli che spiegano come, nonostante l’organizzazione migliore, le amicizie influenti, non riesca a scrollarsi di dosso il vecchietto del Vermont. Sulla corsa democratica incombe poi la possibile candidatura di Joe Biden. Il vicepresidente ha più volte detto di considerare l’idea e anche, specie in una commovente intervista rilasciata a Stephen Colbert, di sapere che dopo la recente morte del figlio Beau, non sa se sarebbe in grado di condurre una campagna per la quale servono tutte le energie a disposizione. I rumors riportati dal New York Times dicono anche che Clinton stia facendo di tutto per portare pezzi di partito dalla sua parte e cominciando a lanciare messaggi al vice di Obama. In una campagna che per i democratici si sta connotando molto a sinistra e fortemente critica nei confronti della finanza e delle banche, il fatto che Biden, prima di fare il vicepresidente, sia stato per decenni senatore del Delaware (il paradiso fiscale d’America), non è un buon lasciapassare. E la campagna Clinton sta facendo molto per ricordarlo al partito.

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