Dopo una giornata campale, manifestazioni pro e contro in Campidoglio e l'annuncio di una mozione di sfiducia da parte della sua maggioranza, il sindaco annuncia l'addio

Contenti sono i 5 stelle, ovviamente. «Non so se vinceremo», dice Alessandro Di Battista, «dipende dai romani, mettiamoci alla prova».

Marino si è dimesso e la città sembra destinata al voto in primavera, con Milano, Bologna, Torino e Napoli. Matteo Renzi è alla ricerca di un candidato, qualcuno che accetti però di andare incontro a un probabile tonfo. «Ci vuole coraggio», dicono dal Pd, in realtà per farsi coraggio. Lo scenario preferito sarebbe stato quello di andare al voto nel 2017, e invece tutto è precipitato. Dopo la vicenda delle smentite sugli scontrini e sulle cene pagate da Marino con la carta di credito del Comune, il Pd ha messo il sindaco alla porta. Lui ha provato a resistere ma prima le dimissioni dei tre più recenti innesti in giunta (Causi, Esposito e Rossi Doria), poi una mozione di sfiducia annunciata dal gruppo del Pd e da Sel, lo hanno fatto desistere. Dei commenti possibili, il primo da segnalare lo fa il collega della Stampa Iacoboni. Sul populismo insiste anche Gianni Riotta.

È stato però Renzi il primo ha cavalcare ogni polemica, anche la più strumentale, contro Marino. E l’esito della sua esperienza amministrativa sarebbe stato sicuramente diverso se fosse stato sostenuto e non osteggiato dal Pd. Solo che il Pd – come Mafia Capitale dimostra – era a Roma parte del problema, di Marino e della città.

Segno dei tempi e di scarsa memoria è che a mettere Marino sulla graticola siano non solo i 5 stelle ma anche la destra che ha sostenuto fedelmente Gianni Alemanno, e la sua esperienza amministrativa, macchiata non dai sei cene, ma da parentopoli.