Morti e feriti a Gaza e Gerusalemme. Il leader di Hamas nella Striscia chiama alla rivolta, mentre Israele si ostina a ignorare l'Anp. Cronaca della nuova escalation

Morti e feriti, da una parte e dall’altra. Prima si è cominciato con gli accoltellamenti, poi con gli spari. Gli ultimi morti sono sei i palestinesi uccisi da soldati israeliani alla barriera di Gaza mentre protestavano in solidarietà con la gente di Gerusalemme. Sessanta i feriti. La mattina un uomo aveva accoltellato quattro arabi israeliani a Dimona. A Gerusalemme, invece sono un giovane israeliano e un poliziotto ad essere stati accoltellati. In una settimana sono undici le vittime di attacchi e rappresaglie. Ma è dal 9 settembre, con il braccio di ferro attorno ai luoghi di culto ebrei e musulmani che a Gerusalemme sono ammassati gli uni sugli altri. Da quel giorno, arresti, ferimenti, assassinii di israeliani, manifestazioni si sono susseguite senza sosta. All’Assemblea generale dell’Onu, il presidente palestinese Abbas ha protestato, mentre Netanyahu criticava l’accordo Usa-Iran sul nucleare.

epa04970663 An Israeli border policeman aims his weapon towards Palestinian protesters during clashes in the West Bank city of Hebron, 09 October 2015. Israeli soldiers killed four Palestinians in clashes on the border with the Gaza Strip, while there were four stabbing incidents inside Israel targeting both Jews and Palestinians. Violence has been ongoing for weeks, focused on Jerusalem and nearby areas on the West Bank amid rising concerns the situation could lead to an even greater escalation if not scaled back soon. EPA/ABED AL HASHLAMOUN

Il clima nella città vecchia è tesissimo: le autorità israeliane hanno imposto severi limiti alla possibilità di andare a pregare ad al Aqsa, sulla spiana delle moschee. Gli uomini non anziani non possono entrare. In alcuni quartieri periferici della città le macchine israeliane sono state fatte oggetto di lancio di pietre da parte dei palestinesi. Il capo di Hamas a Gaza, Hanyeh, ha chiamato la terza Intifada. La situazione, insomma, è entrata in una nuova fase di alta tensione. Ce lo si aspettava da tempo.

Per adesso gli attacchi dei palestinesi sono da imputare a lupi solitari, ma nel caso di una reazione eccessiva delle forze di sicurezza israeliane, è probabile che anche i gruppi organizzati comincino a organizzare la protesta. Le parole del capo di Hamas sono un segnale in questo senso. Vedremo nei prossimi giorni cosa produrranno. Amira Hass, giornalista israeliana, ha commentato su Ha’aretz la situazione:  

(…) Anche il linguaggio è dannoso. Gli ebrei sono assassinati, i palestinesi vengono uccisi e muoiono. È proprio così? Il problema non comincia con il nostro non essere autorizzati a scrivere che un soldato o un poliziotto ha sparato ai palestinesi da distanza ravvicinata e senza essere in pericolo di vita (…) La nostra comprensione è prigioniera di un linguaggio censurato retroattivamente (…) Nel nostro linguaggio, gli ebrei vengono uccisi perché sono ebrei e i palestinesi trovano la loro morte e la loro angoscia, perché, presumibilmente, è quello che stanno cercando.
L’obiettivo di questa guerra unilaterale è quello di costringere i palestinesi ad abbandonare tutte le richieste relative alla costruzione di una nazione. Netanyahu vuole l’escalation perché l’esperienza finora ha dimostrato che i periodi di calma dopo una crisi ci riportano non alla linea di partenza, ma a un nuovo minimo nel sistema politico palestinese, e aggiunge privilegi alla Grande Israele. I privilegi sono il fattore principale che distorce la nostra comprensione della realtà, accecandoci. Grazie a questi, non riusciamo a capire che, anche con una leadership debole e “presente-assente”, il popolo palestinese – sparso nelle sue riserve indiane – non rinuncerà e continuerà a trovare la forza necessaria.

Della leadership palestinese parla anche un commento pubblicato su Foreign Affairs che, nelle scorse settimane si chiedeva: come mai non c’è una terza Intifada?

Nonostante un recente smentita ufficiale dell’ufficio del primo ministro, le voci su negoziati diretti su un cessate-il-fuoco tra Hamas e Israele persistono. A solo un anno da una brutale guerra di 50 giorni, Hamas è visto da alcuni come un cuscinetto contro il caos e l’aumento dellinfluenza dell’IS nella Striscia di Gaza. Nessuna trattativa simileè attualmente in corso con l’Autorità palestinese, partner per la sicurezza di Israele in Cisgiordania. Il leader dell’opposizione israeliana Isaac Herzog ha sostenuto che la politica del governo sembra essere «parlare con Hamas isolando Abu Mazen».

Per Israele, a quanto pare, la realpolitik ha la precedenza, tranne quando l’ideologia, politica interna, e il territorio della Cisgiordania sono coinvolti. Una terza Intifada non è cominciata, non  per grazia di Dio, ma a causa delle decisioni prese a Ramallah. Data l’incertezza che circonda la successione di Abbas, è difficile sapere quanto a lungo l’Autorità palestinese continuerà a mantenere questa linea. Il governo israeliano finirà con il rimpiangere di non aver parlato con Abbas quando poteva.

Ecco, in queste ore il tempo sembra essere scaduto: se a Gaza davvero si cominciasse una Intifada, l’Anp avrebbe serie difficoltà a mantenere tranquilla la situazione in Cisgiordania. Del resto, se valgono le parole di Tzipi Hotovely, viceministro degli Esteri israeliano, la situazione sembra senza via di uscita. Criticando l’idea europea di boicottare le merci israeliane prodotte fuori dai confini del ’67, al Jerusalem Post Hotovely ha detto:

«Il mondo ha bisogno di interiorizzare che la West Bank rimarrà sotto la sovranità israeliana “de facto”, che non è una merce di scambio. Non dipende dalla buona volontà dei palestinesi. E’ la terra dei nostri antenati e non intendiamo lasciarla. Certo non allo stato islamico o ad al-Qaeda o ad altre organizzazioni estremiste che finirebbero per per avere il controllo sul territorio».

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