Altro che paladina delle frontiere aperte. Le politiche migratorie europee, e quelle di Merkel, puntano al rafforzamento delle frontiere esterne

Che il tema dei migranti e dei rifugiati sarebbe stato al centro del tavolo in cui si sono decisi i Nobel è più comprensibile. Quello che sconcerta è che tra i candidati – accanto al papa e all’agenzia Onu per i rifugiati – ci fosse pure il nome di Angela Merkel. Papabile fino a poche ore fa, Merkel è stata candidata da alcuni colleghi della sua Unione (Cdu-Csu) «per avere aperto le porte del suo paese ai migranti arrivati in Europa». Chi ha candidato e sostenuto “das Mädchen” (“la ragazza”) alla santità svedese, però, omette di riportare che la paladina delle frontiere aperte, in realtà, non smette di chiedere, costantemente, il rafforzamento delle frontiere esterne. È questo il modo – come ha sostenuto al Parlamento europeo, con al suo fianco il presidente francese François Hollande – per contrastare ed evitare le virate populiste e xenofobe.

Il cambio di posizionamento dell’asse franco-tedesco, nelle ultime settimane, si è spostato sulla difesa e il rafforzamento di Schengen (lo spazio di libera circolazione all’interno dell’Unione), sull’ampliamento dell’area ai rifugiati e, di conseguenza, sulla revisione (per qualcuno addirittura superamento) del Sistema Dublino (quello per cui uno straniero deve fermarsi nel primo paese d’ingresso). Queste “aperture”, però, si accompagnano all’ossessiva richiesta di un aumento del controllo delle frontiere esterne. Sembra di vedere una sorta di openspace europeo, una casa in cui abbattere ogni parete e ogni porta. Ma con un portone d’ingresso blindatissimo, che rende l’impresa di entrarci sempre più difficile.

Germania, 6 settembre. Stazione ferroviaria di Dortmund

Sì, è vero, la scorsa estate Merkel ha aperto le frontiere tedesche ai “rifugiati”. Lo abbiamo letto e riletto, fino allo stremo. Ma vi siete chiesti chi è meritevole del titolo di “rifugiato” secondo i canoni di Merkel? Le condizioni sono precise: la certezza che il Paese di provenienza dei profughi sia “ufficialmente” in guerra, come per i siriani. La Cancelliera, non a caso, insiste nel volere una lista dei Paesi sicuri. E cioè un elenco di Paesi che stabilisca chi ha diritto di essere “protetto” e chi – essendo un “migrante economico”, e cioè uno che scappa dalla fame o da un conflitto che non è riconosciuto da quell’elenco – questo diritto non lo ha e deve essere espulso dall’Ue. E giù con gli hotspot, con la detenzione preventiva (perché sennò scappano prima che si riesca a rispedirli a casa) e con i rimpatri nei Paesi che non vogliono riprenderseli e quindi tocca sanzionarli e minacciarli di rimettere mano ad aiuti e visti rilasciati, per esempio.

Un Nobel alla Merkel sarebbe stato inopportuno, almeno quanto quello ricevuto dall’Unione europea nella passata edizione per «l’impegno nei diritti civili e umani». Dopo quel premio in Europa abbiamo costruito reti metalliche con lamette e filo spinato, abbiamo assistito a una serie di vertici con l’intento di suddividere in quote precise pacchetti di esseri umani, abbiamo finanziato una missione militare per bombardare dei barconi, contro i trafficanti d’esseri umani, s’intende. E infine i vertici tessono accurate minacce per i Paesi terzi, per convincerli a riprendere con sé chi è scappato proprio da lì. Ecco, perseverare sarebbe stato davvero diabolico.

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