«Racconto la mia generazione e la precarietà in cui noi trentenni viviamo ogni giorno». Zerocalcare parla del suo nuovo libro e di impegno. E dice: «Ora torno a raccontare la resistenza curda»

Maglietta nera, smilza. Sopracciglioni. E quell’espressione a volte basita, più spesso, disarmante e meravigliata della vita. È la creatura uscita della matita di Zerocalcare, il suo alter ego, protagonista dei libri che il fumettista romano ha pubblicato con Bao publishing e schizzati in cima alle classifiche di vendita dei libri prima ancora che il suo schivo autore avesse avuto modo di rendersene conto. «Non durerà, sarà un fenomeno passeggero» ripete a sé stesso e agli altri il trentunenne Michele Rech in arte Zerocalcare. Immaginando di tornare presto a dare ripetizioni di francese per sbarcare il lunario. E a disegnare per diletto nei centri sociali della periferia romana, dove è cresciuto e dove si sente più a suo agio. «Qui conosco tutti e non avverto nessun pericolo», dice di Rebibbia, dove sorge il carcere. «Un quartiere tranquillo, fatto anche di case basse con la palma che ricordano un po’ Pescara e un po’ Los Angeles». Anche in questo nuovissimo libro, L’elenco telefonico degli accolli che Zerocalcare presenta il primo novembre a Lucca Comics&Games, siamo a Rebibbia. Zigzagando fra centri sociali, computer e serie tv, qui scorre la vita di ragazzi che si danno arie da bulli, per nascondere la timidezza. Fra tutti gli inseparabili Secco e Cinghiale. Perennemente in lotta contro la precarietà, i ragazzi di Zero, però, non lo sono altrettanto nei rapporti. Tanto da «lasciarsi e rimettersi seicento volte con la stessa persona», per dirla con la vignetta che in questi giorni campeggia ad apertura del suo blog.

zerocalcare

Sono storie locali, molto personali, quelle che racconta Zerocalcare. Eppure c’è qualcosa, se non di universale, certamente di generazionale, che risuona anche a centinaia di chilometri di distanza, richiamando frotte di giovani lettori da Bolzano a Catania. Che gli hanno fatto toccare quota 200mila copie vendute con Dimentica il mio nome, approdato alle finali del Premio Strega.

Tutto è cominciato con un passaparola nel 2011, con l’exploit del blog aperto in concomitanza con l’uscita de La profezia dell’armadillo, il suo primo importante lavoro. Poi, su questa scia, sarebbero venuti molti altri titoli e, più di recente, lavori più schiettamente politici, come il suo reportage da Kobane pubblicato su Internazionale. Così, mentre va su e giù per l’Italia per presentare queste duecento pagine che distillano in vignette i suoi ultimi due anni vita, trascorso cercando di schivare gli accolli – ovvero richieste o pressioni del mondo editoriale – ci accolliamo l’impresa di provare a intervistarlo. Per giunta mentre arriva la notizia che l’incontro previsto al Circolo dei Lettori di Torino è stato cancellato perché Zero ha 39 di febbre. Suspense. Finché dall’altro capo del telefono risponde, gentile, disponibile, con un filo di timidezza nella voce. Il successo? «Ho avuto una buona dose di fortuna – si schermisce – . Il lavoro dietro a questo risultato c’è ed è molto, ma ho anche inconsapevolmente azzeccato il modo e il momento giusto per dire certe cose, che poi sono quelle che riguardano molti trentenni di oggi».

Qualcuno dice che hai saputo cogliere lo Zeitgeist, ciò che si muoveva nell’aria ma non aveva ancora trovato forma ed espressione.

A qualche livello ho colto l’esigenza di auto-narrazione che c’è nella mia generazione, fatta di giovani alle prese con la precarietà, da molti punti vista. Mentre il tempo passa e ti accorgi che non puoi più dirti un ragazzo.

 

«Qui si sposano come mosche», dice, con ironia, una tua vignetta. I tuoi antieroi rifiutano le convenzioni, le tappe obbligate della vita?

Ci vedo ben poco di eroico nei miei personaggi. Quella frase in realtà racconta davvero ciò che sta accadendo intorno a me. Molti amici si sposano, il tempo passa, e io non sono poi così sicuro che la strada che ho intrapreso sia la migliore. La vivo con un po’ di ansia, con la sensazione di perdere parti di me, della mia identità. Temo che tutto questo, alla fine, mi lasci solo una grande aridità.

Per Einaudi hai disegnato la copertina di Honky Tonk Samurai, il nuovo libro di un autore cult, visionario, come Joe Lansdale e hai disegnato la locandina della giornata per Stefano Cucchi il 31 ottobre a Roma. Presto tornerai a fare cose più politiche?

L’ho sempre fatto, fin dai tempi del G8 di Genova e nell’underground dei centri sociali. Ora vorrei tornare a raccontare la resistenza curda. Sto lavorando al progetto di un nuovo libro. Quando sono andato la prima volta non era per fare un reportage, ero andato con attivisti poco prima della strage di Suruc, che ha segnato l’inizio di un’escalation di violenza. Erdogan usa la scusa dell’antiterrorismo per azzerare la resistenza kurda.

Mentre parliamo arriva la notizia che Erri De Luca è stato assolto. Dacci il tuo commento “in diretta”.

La richiesta di condanna per Erri De Luca per istigazione era assurda, tutta la vicenda dei processi sulla Tav lo è. È un’aberrazione politica che siano stati richiesti danni ai manifestanti, che dovrebbero sborsare somme impossibili. Che non hanno la possibilità di sollecitare i media perché non sono nomi noti.

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