Non occorre essere madri per realizzare il proprio progetto di vita. Ma anche scegliere di diventarlo, in Italia, è difficilissimo. Le donne alle prese con leggi sbagliate, disuguaglianze e welfare inesistente

L’Italia è ormai da anni tra i Paesi a più bassa fecondità in Europa e tra i Paesi Ocse, anche se non ne detiene più il primato, essendo stata raggiunta e in alcuni casi, superata, in Europa, da Spagna, Germania, Portogallo e alcuni Paesi dell’Est europeo. L’Italia è anche un esempio del rovesciamento del rapporto tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità avvenuto nei Paesi sviluppati alla fine del secolo scorso. Paese a fecondità relativamente alta e occupazione femminile bassa ancora negli anni Settanta del Novecento, già a metà degli anni Ottanta mostrava sia tassi di occupazione femminile sia tassi di fecondità tra i più bassi, attorno all’1,5 figli per donna. Quest’ultimo tasso ha continuato a scendere fino al 1996, toccando l’1,19 figli per donna. Da allora è risalito molto lentamente (e in larga misura a motivo del più alto tasso di fecondità delle donne migranti), ma rimanendo sempre al di sotto dell’1,5. Negli ultimi anni, inoltre, la tendenza è tornata ad essere discendente. Nel 2013 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati), il tasso di fecondità era di 1,39 figli complessivamente, più basso tra le italiane che tra le straniere. Si è anche alzata l’età della madre alla nascita del primo figlio, con un progressivo aumento delle nascite da madri che hanno più di 35 anni. Nel 2013 l’età media delle donne alla nascita dei figli è stata di 31,5 anni, circa due anni e mezzo in più rispetto al 1995 (era 29,8). Negli ultimi anni, la diminuzione della nascite è stata particolarmente veloce nel Mezzogiorno, dove nell’arco di poche generazioni il livello di fecondità è andato convergendo, al ribasso, con quello del Centro Nord, nonostante (ma forse proprio a motivo) tassi di occupazione femminile molto più contenuti. Per altro, il fenomeno, raro, della maternità in età molto giovane, prima dei 18 anni, è concentrato pressoché solo nel mezzogiorno, segnalando una possibile mancanza, per alcune giovani donne appartenenti a gruppi sociali svantaggiati, di opzioni alternative, quali l’investimento nello studio e nel lavoro prima di effettuare una scelta di questa portata per le sue conseguenze nel medio e lungo periodo, per sé e per i figli.
Avere un figlio “troppo presto” può, infatti, essere rischioso per le chances di vita di una giovane donna. D’altra parte, anche decidere di avere un figlio – e ancor più averne un secondo – può essere oggi impossibile per le donne che vorrebbero entrare nel mercato del lavoro, ma si trovano strette nella doppia scarsità della domanda di lavoro e degli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro, come succede a molte donne del Mezzogiorno, specie se a bassa qualifica. Può essere anche molto difficile per chi riesce ad accedere al mercato del lavoro, ma deve scontrarsi con le sue rigidità o flessibilità sfavorevoli (insicurezza contrattuale, part time forzato), proprie e o del proprio compagno, unite alla carenza di strumenti di conciliazione anche nelle situazioni più favorevoli. Tutto ciò in un contesto culturale e di aspettative condivise – e talvolta istituzionalizzate – secondo cui il benessere psicofisico dei figli, soprattutto quando piccoli, è una prevalente, quando non esclusiva, responsabilità delle madri. L’Italia è uno dei Paesi in cui è più elevata la percentuale di chi ritiene che un bambino in età prescolare soffra se la mamma lavora.

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Siamo di fronte al permanere di vecchi modelli, più o meno forzati, di organizzazione della famiglia fondata su una forte divisione del lavoro in base al genere

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Le giovani mamme italiane si muovono strette tra un vecchio-nuovo “maternalismo”, che coniuga il mai superato stereotipo della madre sacrificale e di maternità totalizzante con un’idea altrettanto totalizzante dei bisogni del bambino, e il nuovo modello della supermamma giocoliera, che tiene insieme tutto, figli e lavoro, solo con le sue forze (ed è sempre a rischio di essere considerata egoista, narcisista). Sono modelli solo apparentemente opposti di ipermaternità che si trovano anche in altri Paesi e che sono difficili (oltre che rischiosi) da praticare ovunque e da chiunque, ma particolarmente in un Paese come l’Italia, ove l’ideologia e le politiche troppo spesso si saldano a formare un contesto molto poco amichevole per qualsiasi tipo di mamma. Non stupisce, allora, che quasi una donna su cinque al momento della nascita del figlio lasci, o perda, il lavoro (lo dice l’Istat nel Report del 28 dicembre 2011).


 

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