«Il recupero della Reggia di Carditello dimostra che si può intervenire con successo e rapidamente, se lo Stato ci crede». A colloquio con l’ex ministro della Cultura Massimo Bray

«La storia della Reggia di Carditello è quella di un luogo trascurato e lasciato in condizioni di abbandono che ora invece viene restituito alla comunità e valorizzato in base ai compiti di tutela che dobbiamo esercitare sul nostro patrimonio, come dice l’articolo 9 della Carta». Così l’ex ministro della Cultura Massimo Bray racconta del pieno recupero della Reggia a cui ha lavorato in prima persona, nonostante le minacce da parte della camorra. «Arrivai a Carditello dopo un crollo, chiamato da associazioni locali. Lì incontrai Tommaso Cestrone che ne è stato per anni il custode. Era abbastanza prevenuto perché la politica, come mi disse subito, tante volte si era affacciata a Carditello, dicendo che era uno dei luoghi più belli del mondo, ma poi aveva sempre finito per fare molto poco. Mi disse: non ci servono più parole, ma trovare la via perché lo Stato rientri in possesso della Reggia. Con Tommaso poi abbiamo continuato a sentirci. Gli dissi che il ministero avrebbe tentato in tutti i modi di entrare in possesso della Reggia» ricorda Bray. Purtroppo Tommaso non ce l’ha fatta a vedere il suo sogno arrivare a compimento. La sua storia e quella della Reggia ora sono evocate nel film Bella e perduta di Pietro Marcello che sarà presentato il 18 novembre al Torino Film Festival.

«Mi dispiace molto che non abbia visto il recupero dell’opera. Senza di lui non saremmo arrivati a questo risultato» dice l’ex ministro oggi direttore della Treccani. «Conosco la Reggia da quando ero ragazzo, mi ha sempre colpito l’intuizione di Ferdinando IV che ne fece un’impresa modello e un luogo di cultura che svolgeva un ruolo importante per la vita di questa comunità. Anticipando la riforma agricola toscana del Settecento. Oggi il caso di Carditello dimostra che, se lo Stato intende fare una cosa, può portarla a compimento in tempi brevi».
Dopo le lettere con proiettili e minacce di morte non ha pensato di mollare?
Tendo a pensarci cercando di ribaltare il problema. All’inaugurazione della Reggia, una signora disse: “Per la prima volta il Tg parlerà bene di Carditello e della Campania”. Finalmente la Reggia non è solo nelle cronache perché bisogna bonificare il paesaggio, o perché si è cercato di fare una discarica a pochi metri, come è successo. Veramente potrebbe essere un luogo di riscatto sociale, per far tornare i cittadini a sentirsi partecipi di un bene comune.
Qualcosa di analogo si può dire per gli Uffizi in trasferta a Casal di Principe?
Ho visitato la mostra e, ancora una volta, sono rimasto impressionato dal lavoro svolto dalle associazioni e dai volontari: 70 giovani donne e uomini. Sono riusciti a gestire il recupero di questo bene confiscato e a progettare una mostra che trasforma quello che era un simbolo dell’illegalità in un simbolo della trasparenza e della partecipazione.
Il 6 novembre lei inaugura il festival di Microeditoria a Chiari; un settore creativo e vitale nonostante tutto e che ora dovrà vedersela con il colosso “Mondazzoli”. Perché in Italia fare editoria da indipendenti è così difficile?
Pensando ai piccoli editori ho sempre l’impressione che il Paese sia diviso in due, come una mela. Siamo costretti a prendere atto di uno status quo, difficile da cambiare ma al contempo questi editori ci danno dimostrazioni straordinarie. In Italia abbiamo una grande quantità di piccole imprese che con vitalità, con forza, con capacità di resistenza, ci dicono che si può fare editoria in Italia. Una cosa che rimprovero anche a me stesso è non aver sostenuto abbastanza il valore sociale del libro: abbiamo inseguito il dibattito sul libro digitale e cartaceo senza pensare che il libro, al di là della forma, ha una funzione sociale importante. I piccoli editori stanno portando avanti questa bella sfida. È una risposta molto italiana che mi piace molto. La prima parte della “mela” è bene organizzata, conosce le procedure che funzionano, chissà cosa accadrebbe se la seconda parte della mela riuscisse a mettere insieme tutte queste esperienze, forse vedremmo il Paese in modo differente.
La Girolamini è stata saccheggiata, molti libri antichi sono stati rubati e venduti. Solo grazie al coraggio di due bibliotecari precari lo scandalo è emerso e ora la biblioteca di Vico è stata riaperta. La Nazionale di Firenze, invece, è sotto organico e sono state organizzate sfilate e partite di golf per drenare fondi. Che fare per salvaguardare le biblioteche pubbliche?
Una scelta così – che ovviamente non condivido – è dettata dall’idea di non avere fondi per gestire questo nostro patrimonio. Ma questa è una scelta di campo della politica. Che invece deve capire che la cultura è il migliore veicolo di diplomazia. Pensando al futuro non possiamo non dare ossigeno alla cultura. Oggi in tutto il mondo si scopre il valore del bel canto e del melodramma. Benissimo, ma questo è possibile perché noi per secoli abbiamo messo al centro delle nostre attenzioni queste manifestazioni che sono espressione della nostra identità nazionale. Pensiamo per esempio al valore del cinema italiano nella memoria collettiva del Paese. Per far vivere e dar forza a queste e ad altre forme artistiche occorrono finanziamenti. Occorre che lo Stato ci metta tutte le risorse necessarie. Che secondo me ci sono. È solo un problema di scelte, rispetto alle risorse. Non possiamo lasciare morire le biblioteche. Ha ragione una bibliotecaria come Antonella Agnoli quando dice che sono le piazze del sapere del nostro tempo. Devono essere il luogo dove i giovani si possono incontrare , dove possono leggere un libro o un videogioco; dove i meno giovani possono andare a leggere un giornale. Dobbiamo fare in modo che le biblioteche stesse diventino uno spazio di socialità, questo passaggio non è ancora avvenuto. Bisogna crederci e investire perché accada. Sono stato molto colpito dagli studenti di storia dell’arte della Gam di Torino che insieme agli insegnanti hanno portato avanti una battaglia, giustissima, per tenere aperta la biblioteca, non solo per il valore che ha, ma anche come luogo dove si confrontano le esperienze, dove si creano relazioni intellettuali, sociali, affettive. Questo significa ripensare gli spazi urbani. Le categorie di valutazione non possono essere solo la commercializzazione e l’utile.
Da ministro lei firmò una lettera per il ripristino dell’insegnamento della storia dell’arte cancellato dalla Gelmini. La politica italiana si vanta del patrimonio d’arte ma poi a scuola non si studia. Non è una contraddizione in termini?
Lo è indubbiamente. Si parla molto oggi di innovazione con la scuola digitale. Io vorrei che la scuola esprimesse che tipo di Paese vogliamo. La scuola deve immaginare una visione del Paese. Di quali contenuti c’è bisogno per fare tutto questo? Se l’Italia si è sedimentata come nazione grazie a questo straordinario patrimonio storico-artistico, la storia dell’arte merita di avere debito spazio.
In un libro Rottama Italia di Altreconomia, scritto con Settis, Montanari e altri, lei è intervenuto criticamente sullo Sblocca Italia. Poi le soprintendenze sono state subordinate alle prefetture ed è passata la clausola del silenzio assenso. Che idea di tutela emerge da tutto questo?
Ho scritto quelle pagine perché sono convinto che non sia buon metodo per governare il Paese derogare sempre alle norme. Non si governa così. Peraltro ogni volta che abbiamo derogato i risultati non sono stati affatto positivi. Bisognerebbe ricordarsi cosa è successo. C’è un problema, vediamo cos’è, affrontiamolo. Non mi piace questo fatto di leggere tutte le strutture di tutela, come fossero di ostacolo all’azione. Se possiamo ancora vantarci di avere tracce di un passato che tutti ci invidiano lo dobbiamo proprio alle strutture del ministero che con intelligenza, sapienza, hanno saputo difendere il patrimonio d’arte e il paesaggio. Lo Sblocca Italia contiene molti pericoli a questo riguardo. Qui si contrappongono due modi di vedere il Paese: c’è un modo di vivere un po’ alla giornata. Del tipo: si apre una buca, la chiudo. Ma noi ci dovremmo chiedere come sarà questo Paese nel 2030, cosa favorisce lo sviluppo, quali saranno le forme di lavoro buono. Di fronte alla crisi dell’industria pesante quale crescita possiamo immaginare? Se tutto questo ci porterà a dire che il Paese potrebbe crescere su innovazione e valorizzazione dei beni culturali, sarà chiaro perché la Costituzione le tiene fortemente unite. Per questo non è utile leggere i beni culturali come petrolio da sfruttare. Vanno visti invece come un bene che ha creato un’identità nazionale come disse Calamandrei. Se non avviene questo ci sarà un sempre maggiore senso di distacco da parte dei cittadini e sarà sempre di meno la parte che si sentirà rappresentata. Questo mi preoccupa.

La Treccani ha 90 anni, che ruolo ha nella storia italiana e cosa immagina per il futuro?
Per i 90 anni abbiamo mostrato documenti d’archivio come quello in cui i servizi segreti scrivono al Duce segnalandogli il lavoro di Gentile all’interno dell’istituto e questa comunità animata da un bel po’ di anti fascisti. È di grande attualità il modo in cui inizia questa nostra storia. Nel manifesto fondativo Gentile dice che questo sarà il luogo dove si formeranno le classi dirigenti, dove si formerà la memoria del Paese e adesso ci chiediamo come proiettarlo nei prossimi 90 anni; la scuola sarà il luogo dove misurarsi. Anche il lavoro di tutela dei beni culturali potrebbe vedere impegnata Treccani, tutela e valorizzazione non sono solo numeri, quantità di spettatori. Intanto mi sembra importante che tante famiglie acquistino il vocabolario Treccani. Si fanno convegni sulla lingua come presidio culturale e i cittadini ci credono davvero se fanno tanti sforzi per acquistare un buon vocabolario. Forse dovrebbero crederci di più le classi dirigenti. @simonamaggiorel


 

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