In libreria Madri di Myrta Merlino. Undici storie di donne che affrontano la maternità in modo diverso. Tra diritti civili negati e “banalità del bene”

Myrta Merlino è il volto deciso e gentile de “L’aria che tira”. In onda tutti i giorni su La7 si è messa in gioco con un libro difficile, intimo, Madri, nel quale racconta la sua storia e quella di altre 11 donne che come lei sono diventate madri. Ognuna a modo suo.
Perché un libro sulle madri?
È la prima volta nella mia vita che mi metto in gioco così. Ho sempre scritto libri molto giornalistici, molto lontani dalla mia intimità, questa volta no.
C’è un passaggio in cui scrivi: «Mi sentivo costretta, vivevo quella maternità esagerata come un ingombro… ho vissuto tutta la gravidanza come una zavorra che rallentava la mia vita». Quindi le donne non nascono innatamente madri?
Quelle frasi le ho scritte non solo perché sono vere, ma perché secondo me è molto importante per le donne non subire la retorica sulla maternità. La maternità non è uguale per tutte, ci sono donne che hanno un desiderio pazzo di avere figli e stanno nove mesi a letto e chi, come me, non si sentiva nata per fare la mamma e poi ne ho avuti due, insieme. Passare dal non avere ancora il progetto dei figli ad avere dei gemelli mi ha fatto provare quello che ho scritto. Avevo mille desideri e ho avuto paura che due figli mi avrebbero ostacolata. Il che, secondo me, capita a molte donne. Tanto che sono arrivata a pensare che l’unico modo per diventare madre nella vita è di farsi travolgere, ovviamente se non hai problemi di altro tipo. La maternità ti deve un po’ succedere. Io sono arrivata fino al parto così, e solo dopo ho avuto il colpo di fulmine. Quando sono nati, li ho visti e ho pensato “loro saranno la mia vita”. Perché è come se mettessi a fuoco l’altro: ma questa non è una cosa che ti puoi imporre a tavolino, succede e basta. E non ci sono regole standard, non esiste la madre perfetta, esistono al massimo, come dice Jill Churcill, mille modi diversi per essere una buona madre.
La scintilla per iniziare a scrivere, racconti, è stata Toya. Che hai visto in quella donna di Baltimora che schiaffeggia il figlio incappucciato per riportarselo a casa?
L’ho incontrata per caso, su Youtube e l’ho mandata subito in onda. Mi è piaciuta tantissimo. Mi ha colpito il gesto di una madre oggettivamente meno fortunata di tante di noi, di una periferia poverissima dove se va bene tuo figlio finisce drogato, senza un compagno, che però ha la forza di fare la cosa giusta perché la “sente” forte. Noi, in condizioni molto migliori, spesso non la facciamo la cosa giusta, perché non sentiamo. È stata una grande lezione per me. Ci sono volte in cui l’amore è duro, in cui devi saper dire no. Toya ha difeso il figlio persino da se stesso e se lo è riportato a casa.
Racconti anche la storia della madre di Corona e scrivi: «La vita può essere come un film di Vanzina, una puntata di Non è la rai, o addirittura come il circo ridanciano di DriveIn». Che danni ha fatto quella cultura?
Lunedì, Antonello Caporale in studio, citando Gaber, ha detto una frase che trovo giustissima: io non ho paura del Berlusconi che è in sé ma di quello che è in me. Inutile continuare a demonizzarlo, meglio ragionare su ciò che ha prodotto culturalmente: un mondo di paillettes, senza anticorpi, per cui diventa reale la vita dove tutto è a portata di mano, facile. Al di là delle questioni etiche, il problema è che ha sdoganato la logica della scorciatoia, e la scorciatoia prima o poi la paghi.
Nel raccontare di Micaela, preside del liceo Giulio Cesare, accenni al caso delle baby squillo dei Parioli e di quelle madri che «non vedono e si sovrappongono». Cosa intendi?
Pongo il tema dell’attenzione: si passa da genitori ossessionati a quelli del tutto assenti. Un ragazzino, invece, lo devi ascoltare, guardare in faccia, osservare come sta con i suoi amici. Io organizzo ciclicamente cene a casa con gli amici dei miei figli – loro mi detestano per questo – ma vederli con gli altri mi dice molto di più che vederli con me, perché lì sono loro, nel loro ambiente. Bisogna guardarli, vedendoli ovviamente. Io sono la prima ad arrivare a casa col telefonino attaccato all’orecchio e incavolata per quello che è accaduto al lavoro, ma bisogna avere la capacità di fermarsi e dirsi “fammi vedere che faccia ha mia figlia, è dispiaciuta, è arrabbiata, che è successo?”; la sovrapposizione invece è una cosa che mi raccontava la preside, a proposito di queste madri che vogliono fare le ragazzine, che diventano amiche, e tornano a fare le madri solo nel momento in cui difendono l’indifendibile (se i figli rubano o copiano o peggio), diventano paladine perché pensano di essere “dalla stessa parte” dei figli. Ma non è quella la parte dove dobbiamo stare, perché così gli facciamo del male.
Poi quando parli di Dorothy, la madre di Hillary Clinton, sostieni che «un mondo buono, dunque, che fa da contorno a una famiglia cattiva» salva. Vuoi dire che quello che conta è crescere in un ambiente dove l’affetto circola?
Io la chiamo “banalità del bene”, per cui anche una donna come Dorothy, con una storia familiare sfortunatissima, dall’abbandono a una nonna quasi seviziatrice, grazie a gesti di gente che “senza motivo” le vuole bene, diventa la donna che è. Cioè, molto tosta ma con la netta percezione che intorno non sono tutti lupi, perché intorno “non sono tutti lupi”. Ed è una cosa che mi ha colpito perché diventa un messaggio.


 

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