L'atmosfera in città, la paura e il rifiuto di averne. Luoghi che cambiano di segno: dalla festa della musica alla veglia. E i parchi pubblici che chiudono alle quattro del pomeriggio

Sembra impossibile che appena due notti fa ci sia stato l’inferno. I parigini non sanno resistere alle giornate di sole e ieri le terrasses dei caffè erano piene di gente, lunghe file alle boulangeries, passeggini, cani, persone che corrono, che parlano al telefono, colgo frammenti di discorsi, alcune vittime non sono ancora state identificate, ci sono delle persone scomparse, dei feriti gravi negli ospedali.

Ognuno nel quartiere avrà tra i suoi cari o tra i suoi amici e conoscenti qualcuno che è stato colpito. Mi domando: ma questo aplomb tutto francese, che cosa nasconde? Ieri una vicina mi ha detto che lei ha deciso di non avere paura, quindi non ha paura, “même pas peur”. Eppure i segni ci sono: intorno al Bataclan, oltre alle centinaia di giornalisti, si ammucchiano i mazzi di fiori, le candeline, le poesie, i messaggi, lo stesso succede a Place de la République, c’è un uomo che suona la marsigliese al violino.

Il senso di déjà-vu mi fa stare male, eccoci tutti di nuovo qui, con i nostri piccoli gesti a cercare di resistere. Ogni rumore leggermente più forte mi fa trasalire. I bambini comprano una rosa da deporre davanti al locale di Rue de la Fontaine au Roi. Qualche mese fa, il 21 giugno, abbiamo ascoltato un concerto proprio qui davanti, era la festa della musica, questi luoghi sembravano la rappresentazione stessa di questa città, della sua bellezza, della libertà che vi abbiamo respirato finora. Adesso vediamo i grossi fori dei kalashnikov sulle vetrine, quelle pallottole che hanno ammazzato le persone e che rappresentano la fine definitiva dell’innocenza.

Non esistono più luoghi sicuri, abbiamo già perso una parte della nostra libertà. Possiamo, dobbiamo resistere, certo, ma è come se avessimo già perso. Uscire, stare fuori, incontrare gli altri, aprire le porte, riconquistare gli spazi… sembra così necessario, forse è questo che si nasconde dietro questa calma apparente. Il piano d’emergenza vieta gli assembramenti ma la gente si cerca, si unisce, nessuno vuole restare da solo a pensare a quello a cui stiamo andando incontro. Anzi, ci siamo già dentro fino al collo, la parola guerra serpeggia. I parchi pubblici vengono chiusi alle 16, come per una specie di coprifuoco. In effetti a mano a mano che cala la sera, dopo lo splendore del tramonto che tinge il cielo di rosa e di viola, il senso di vulnerabilità aumenta, come se il sole ci avessi protetti e la notte invece ci minacciasse. Intorno alle 19 scendo per fare un giro, percorro poche centinaia di metri, sento urla, gente che corre, il cuore comincia a battermi all’impazzata e senza pensare mi metto a correre anche io. Non ho mai avuto paura finora…