Sono circa 30 mila gli indiani in provincia di Latina, provenienti prevalentemente dal Punjab, regione nord occidentale dell'India. Giunti nel pontino a metà degli anni Ottanta, sono impiegati soprattutto in agricoltura come braccianti

Sono circa 30 mila gli indiani in provincia di Latina, provenienti prevalentemente dal Punjab, regione nord occidentale dell’India. Giunti nel pontino a metà degli anni Ottanta, sono impiegati soprattutto in agricoltura come braccianti. Vivono in una comunità organizzata, in cui le regole religiose si mescolano con quelle sociali che rinviano a una modernità agognata. Una convivenza dinamica che porta, ad esempio, ogni domenica a ripetere il rito dell’accoglienza nei templi sikh pontini. Come in quello di borgo Hermada, vicino Terracina (Lt), oggetto del filmato girato da Marco Silvestri per In Migrazione. Ogni donna, uomo e bambino viene accolto con un sorriso, mentre intorno si svolgono le funzioni religiose. Volti sorridenti, un benessere che manifesta la sua fragilità ma anche il desiderio di uscire dall’invisibilità.

Eppure gli indiani pontini vivono condizioni difficili, in alcuni casi al limite della riduzione in schiavitù. Molti dossier e ricerche hanno indagato la loro condizione lavorativa e denunciato un sistema imprenditoriale fondato sulla tratta internazionale, sullo sfruttamento lavorativo e sull’emarginazione sociale dei lavoratori e delle lavoratrici punjabi. Tra questi, in particolare, i dossier di In Migrazione hanno permesso la comprensione dell’origine e delle dinamiche proprie del reclutamento e dello sfruttamento dei braccianti indiani. Donne e uomini costretti a lavorare quattordici ore al giorno, sabato e domenica comprese, per circa tre euro l’ora. Lavoratori obbligati a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa quando si rivolgono al proprio datore di lavoro, il quale pretende peraltro di essere chiamato “padrone”.

Lo sfruttamento dei braccianti indiani ha assunto connotati drammatici, fino all’uso di sostanze dopanti, spesso indotto dagli stessi datori di lavoro, allo scopo di reggere le fatiche psico-fisiche a cui sono obbligati. Sono stati denunciati ricatti sessuali a cui sono esposte alcune lavoratrici rumene e indiane, come documentato dalle pagine di Left (46/2915). Una notte di sesso nell’auto del padrone per un giorno di lavoro in più. È una forma di capitalismo barbaro e violento, giocato sui corpi delle donne. E poi il fenomeno delle buste paga false, la collaborazione strategica e indispensabile di molti professionisti come avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro che agevolano le pratiche e le prassi dei datori di lavoro, degli sfruttatori e dei trafficanti. E i troppi dipendenti pubblici che arrotondano lo stipendio grazie alla fiducia che gli indiani ripongono in loro: qualcuno è arrivato a chiedere anche 800 euro a un indiano per rinnovare la sua carta di identità.

Si denuncia poco. La giustizia non funziona, spesso arriva in ritardo o non arriva per nulla. Mentre la prepotenza del datore di lavoro arriva puntuale. Impartisce lezioni a cui è difficile sfuggire. E spesso sono lezioni pubbliche. Punizioni corporali, vere e proprie spedizioni punitive, licenziamenti o allontanamenti dalla propria attività lavorativa. Dunque, meglio tacere. Un rapporto di lavoro evidentemente sbilanciato in favore del padrone. Da una parte i lavoratori, dall’altra il capitale, sicuro di vincere sempre. Ma le cose cambiano, sia pure lentamente. Lo sanno i padroni, lo sa bene chi ogni giorno si occupa, in un territorio così difficile, di combattere l’illegalità e le mafie. E iniziano a capirlo anche i lavoratori indiani.